La famiglia Kim, composta da padre, madre e due figli, vive in un seminterrato in un quartiere degradato di Seul. Vivono tutti alla giornata, e sbarcano il lunario come possono, poiché nessuno ha un impiego fisso. Un giorno al figlio maggiore, Ki-woo, capita l’occasione di cominciare a dare ripetizioni alla figlia adolescente della ricca famiglia Park. Da questo momento, grazie anche alla furbizia e all’intraprendenza della sorella Ki-Jeong, tutta la famiglia Kim verrà assunta dai Park. I quattro “parassiti” dovrebbero aver risolto i loro problemi, ma sarà davvero così?
Palma d’oro a Cannes, quattro statuette alla cerimonia degli Oscar 2020 (miglior film, miglior regia, miglior film internazionale, miglior sceneggiatura originale) e una novità senza precedenti: il fatto che ad aver conquistato i premi più importanti, compreso quello al miglior film, sia stato un film “straniero”.
Non si può dire che Parasite non abbia stupito. Ha stupito nella notte degli Oscar, come stupiscono, nel corso della visione, i suoi colpi di scena. Non è un film di facile definizione. C’è la denuncia sociale come tessuto della storia, la critica affatto velata nei confronti di una società che permette i divari sociali, che tollera che ci siano spaccature, veri e propri anfratti da un lato, in cui vivono come scarafaggi i miserabili, e prigioni dorate e opulente dall’altro, dove i ricchi viziati ed egoisti possono brindare e godersi la vita. Ma non c’è solo questo. C’è spazio per la commedia e per qualche scena leggera nella prima metà (anche se si tratta comunque di un umorismo grottesco), ma anche per il dramma, il thriller, perfino l’horror (la mattanza finale è volutamente splatter) nel finale. Come i suoi protagonisti per tutta la storia cercano di diventare qualcosa di diverso da quello che sono, il film stesso è come se fosse alla ricerca di un genere, che non è mai quello giusto. L’effetto che produce nello spettatore è comprensibilmente straniante e claustrofobico. Di scena in scena si fa strada la sensazione che non possa esserci via d’uscita.
In Parasite il mondo e coloro che lo popolano sembrano essere guardati attraverso le lenti di una visione ispirata al determinismo storico e di classe che da noi in Occidente non ha più molto spazio: l’uomo è il prodotto del contesto sociale in cui nasce, qualunque tentativo di valicarne i confini è peccato di hybris, e come tale va punito. Ciascuno deve rimanere fedele alla propria natura; i parassiti, la feccia umana della società, si devono tenere il seminterrato che li ha visti nascere, pazienza se quando piove troppo, questo si trasforma in una vera e propria fogna. Il cercare qualcosa di meglio, il tentativo di evadere dalla fogna, di passare ai “quartieri alti” (sempre da parassiti certo, ma parassiti di case pulite e luminose), non è concesso. E la cosa più sconcertante è che a impedirlo non sono nemmeno i ricchi con la pancia piena. Quelli si limitano a guardarli dall’alto in basso. A guastare la festa a questi miserabili post-moderni saranno i loro fratelli miserabili, a riprova del fatto che la vera guerra è quella tra poveri, e solidarietà e fratellanza in questo momento buio si confermano come residui lontani di una mitica età dell’oro, tramontata da tempo.
Parasite è un film ammaliante e indigesto. Non solo perché miscela tra loro elementi sconfortanti, tragici, sanguinolenti. Non tanto perché le cose non si sistemano. Non appena perché da un certo momento in poi non si capisce più chi è nel giusto e chi no. Quello che alla fine va di traverso è il fatto che nel climax finale e apocalittico noi, come spettatori, perdiamo ogni tipo di fiducia nei personaggi. L’essere umano, in uno stato di totale deprivazione, si rivela per quello che è, il ritratto della meschinità. Non c’è empatia sufficiente a renderci i personaggi nuovamente vicini. Una società schifosa produce individui schifosi. Non c’è da fare il tifo per nessuno. Non per dei parassiti, della natura umana prima ancora che della società.
Scegliere un film 2020
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