Primi Anni ’60. La Ford, per rilanciarsi, decide di entrare nel mondo delle corse. L’idea è di sfidare nientemeno che la Ferrari e batterla nelle mitica 24 Ore di Le Mans, dove il Cavallino Rampante da lungo tempo è invincibile. Gli americani affidano l’impresa allo spregiudicato team manager Carroll Shelby (Damon), titolare di una scuderia minore, e al suo poco diplomatico pilota Ken Miles (Bale). I due amici tenteranno di mettere a punto una macchina in grado di fronteggiare i bolidi di Maranello. Scopriranno però che, per superare le macchine di Enzo Ferrari, dovranno prima scontrarsi con l’ostilità interna di un alto dirigente, consigliere dell’umorale patron Henry Ford II.
Solo spingendosi oltre il limite, l’essere umano può sperare in una risposta sul senso del suo destino. E’ il messaggio di un film di medio livello che pubblico e critica hanno accolto bene, ma che non regge il confronto con Rush, il capolavoro di pochi anni fa, meno fortunato al box office, sulla rivalità tra Lauda e Hunt in Formula 1.
Nella pellicola diretta da Mangold c’è il piacere di stare con personaggi positivi che non si arrendono mai: l’amicizia virile tra i due eroi; gli affetti familiari di Miles, amato da una moglie bella e di temperamento e dal figlio, suo primo tifoso.
C’è anche il gusto del fattore umano che conta più di quello tecnologico e più dei soldi. Per esempio, i nostri che, dove i calcolatori falliscono, riescono a risolvere un problema di aerodinamica con la soluzione da vecchia scuola dei nastri appiccicati alla carrozzeria. Per esempio, ancora, la gigantesca catena di montaggio della Ford, inutile se opposta alla sapienza artigianale della Ferrari.
C’è poi una contrapposizione buoni/cattivi netta, di facile presa: il manager meschino, l’uomo di apparato incapace di sognare, succube di aziendalistici criteri di immagine che non contemplano l’ingaggio di un pilota come Miles, rissoso e non raffinato.
Naturalmente, il film offre sequenze di gara spettacolari, che la storia prova a valorizzare anche dal punto di vista tematico: Carroll, per una patologia cardiaca, ha dovuto smettere di correre, così rivive per tramite dell’amico Miles il brivido di oltrepassare la soglia dei 7 mila giri, quando si accede ad una esperienza metafisica di speciale autoconsapevolezza.
Non mancano, però, i difetti. Le scene di corsa sono alla lunga un po’ ripetitive, e la questione esistenziale della ricerca del senso, lanciata all’inizio e recuperata in extremis alla fine, è per lungo tratto dimenticata. Né i personaggi sono plasmati per rappresentare ciascuno un punto di vista diverso sul tema, come avviene, invece, nei casi dei film davvero riusciti.
Lungo la trama, i palati più fini avvertiranno con fastidio lo sforzo degli autori per assicurarsi che il pubblico si carichi di benevolenza per i protagonisti. Una retorica un po’ ingenua che, a volte, manca il segno. Per esempio, quando Henry Ford II, già convinto dai nostri, non senza fatica, a puntare su di loro, ad un certo cambia idea, riportando indietro il plot su uno snodo che sembrava ormai acquisito. Per esempio, ancora, quando, durante la gara, Carroll ruba i cronometri dal box della Ferrari, e vi getta un bullone per suscitare confusione nei rivali, insinuando il dubbio di aver avvitato male qualcosa. Nonostante il primo piano celebrativo sullo sguardo furbo di Damon, vien da pensare che il gesto sia comunque una meschinità (i poveri meccanici Ferrari stavano tranquillamente facendo il loro lavoro…). Si può aggiungere che i dialoghi tecnici in cui Miles sfoggia la sua capacità taumaturgica di sentire cosa non funziona nell’automobile sono troppi.
Le pecche più gravi sono nel finale. La sceneggiatura, ligia al dato storico, fa fare una scelta a Miles, in dirittura di arrivo, che contraddice l’impostazione generale del film. Orientata tutta a premiare la grande impresa in contrapposizione alla logica del calcolo utilitaristico, la trama curva di colpo in questa seconda direzione. Il commento della moglie di Miles, che prova a spiegare al figlio come nella mossa del marito ci sia grandezza, suona come un puntello posticcio, inserito per scongiurare la delusione del pubblico.
D’altra parte, siccome il film, alcuni minuti dopo, si chiude rinnovando la domanda di partenza sul senso del destino umano, davanti al sacrificio ultimo dell’eroe si resta un po’ con il dubbio che sì, ok il fascino del limite, ma un po’ più di prudenza non avrebbe guastato.
Scegliere un film 2020
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