Dopo la morte di una figlia piccola, il matrimonio tra Yusuke, attore-regista teatrale, e Oto, sceneggiatrice, cade in uno stallo inespresso e doloroso. La ferita ispira a Oto storie che la donna articola a voce durante gli amplessi. La mattina dopo, apparentemente serena, non le ricorda più. È Yusuke a riportargliele. Dal canto suo, Yusuke si rifugia nel lavoro. Alla guida della sua Saab ascolta e prova testi, registratigli dalla moglie. L’automobile è una specie di guscio anestetizzante. Il precario equilibrio della coppia tiene, finché, non visto, Yusuke sorprende Oto a fare sesso con un giovane, forse Kōji, un attore che lei gli ha da poco presentato. Quando Oto, ignara del suo turbamento, gli offre l’opportunità di un confronto, Yusuke esita. Non ci saranno altre occasioni, perché un’emorragia cerebrale ucciderà Oto prima che i due si siano parlati. Qui, dopo 40 minuti, i titoli di testa di quello che ci si rende conto essere stato il lungo prologo del film.
Siamo portati avanti di due anni. Con la Saab, Yusuke lascia Tokyo per raggiungere Hiroshima. Il regista ha accettato di dirigervi una versione di Zio Vanja da recitarsi in lingue diverse: giapponese, cinese, taglog, inglese. Anche in lingua dei segni dato che al casting si presenta una brava attrice sorda. Ma a sorprendere di più Yusuke è la presenza alla selezione di Kōji, cui il regista, a dispetto della differenza di età con il personaggio, affida il ruolo di Vanja. La preparazione di un allestimento che lo tocca nel profondo e avere tutti i giorni a che fare con quel giovane (per rifarsi? per scoprire di più?) accendono nell’uomo la faticosa elaborazione del suo dramma. Perché arrivi a voltare pagina, sarà decisiva la sintonia lentamente creatasi con Misaki, una ragazza affiancatagli dalla produzione per fargli da autista. Anche lei, come Yusuke, reduce da un passato traumatico.
Tempi distesi. Dialoghi pacati. Piccoli gesti. Silenzi e rumori d’ambiente. Caratteri che tengono dentro tanto, lasciando affiorare il patimento lungo una catena di piccole grandi sorprese. Simbologie, ora evidenti (la Saab, che da spazio dell’isolamento diventa alveo di condivisione), ora indirette (la storia surreale lasciata da Oto senza finale). Tangenze sottili tra il testo cecoviano e la parabola di Yusuke (le battute ascoltate in macchina che sembrano entrare in risonanza con i suoi pensieri). Con sensibilità benevolente verso i suoi protagonisti, Hamaguchi usa le durate (quella del prologo, e quella oversize complessiva) per assorbire il pubblico in un viaggio distante dalla congestione del quotidiano. Per accompagnare il protagonista in tutte le stazioni dell’anima che il destino ha in serbo per lui, sostando con lui in ciascuna di esse.
Unanime il plauso della critica a questo adattamento da un racconto di Murakami (in realtà, tre racconti diversi che Hamaguchi ha cucito insieme, amalgamandoli un’unica storia).
Il messaggio del film, rivolto a spettatori predisposti ad una visione colta e paziente, è che la via per conoscere gli altri, del resto mai del tutto decifrabili, passa per lo scavo dentro di sé. “Altri” che nella trama sono in primo luogo rappresentati da Oto. Cosa volevano dire le sue storie? Cosa cercava nel sesso con numerosi amanti, non solo con Kōji (scopriremo che Yusuke fin dall’inizio sapeva di questi comportamenti)? Come poteva unire in sé quasi due donne diverse, come avesse una personalità scissa?
Il protagonista arriverà a capire che superando le proprie resistenze interiori, accettando gli altri per come sono e, dunque, anche per come non sono comprensibili, è l’unico modo per andare avanti insieme. Magari con quell’empatia che gli attori diretti da Yusuke arrivano a provare, superando le barriere del linguaggio.
È un umanesimo esistenzialista forse non originalissimo. Per apprezzarne l’articolazione nel film, a parer nostro, è necessario non farsi disturbare da una certa forzatura nell’impostazione della storia. Il sesso compulsivo di Oto e la sua indecifrabilità, sì dovuti al lutto, sono comunque indice di uno stato problematico, che il protagonista, abbastanza inverosimilmente, ha accettato a lungo. Ne consegue un eccessivo ricorso della scrittura all’ingrediente del disagio psichico, dato che anche nel passato dell’autista Misaki c’è una situazione di questo tipo.
Paolo Braga
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