Adolescenti estroverse e attente alla moda, Claire e Marcia guardano con compassione la compagna di scuola Casey, problematica nelle relazioni con gli altri, goffa e amante della solitudine. Un destino comune e crudele, però, le attende. Di ritorno da una festa, infatti, le tre ragazze vengono rapite da un uomo che le segrega in una prigione sotterranea. Nel disperato tentativo di scappare, Casey, Claire e Marcia si imbattono più volte nel loro rapitore, venendo, così, a scoprire una terribile realtà. Nell’uomo convivono personalità multiple, che lo portano ad assumere diverse identità. L’ossessivo – compulsivo Dennis, il fragile stilista Barney, la rigorosa Patricia e il bambino Hedwig. Queste sono solo alcune delle ventitré personalità in cui il rapitore prende forma ed un’ultima, la più spaventosa e feroce, che nemmeno la sua psichiatra, la dottoressa Fletcher, riesce a domare, sta per venire allo scoperto.
Il regista M. Night Shyamalan torna al cinema con un thriller psicologico in cui il ritmo dettato dai dialoghi e dalla suspense mantiene lo spettatore focalizzato sul destino delle giovani vittime.
Dalla storia emergono nette implicazioni morali sulla natura umana. Non c’è speranza per essa, solo dolore e la conseguente, quanto necessaria, reazione ad esso. Ogni essere umano sviluppa una personale difesa alle violenze inferte. È ben chiaro nei due personaggi principali, la giovane Casey e il rapitore, interpretato da un poliedrico ed eccezionale James McAvoy. Entrambi vittime di aggressioni psicologiche nella primissima infanzia, affrontano diversamente il dolore e le ferite scaturite dall’abuso. Casey, troppo indifesa dinnanzi “all’orco nero”, sviluppa diffidenza nell’essere umano e preferisce la solitudine alle relazioni sociali. Kevin, invece, il bambino diventato uomo in molteplici vite diverse rispetto a quella originaria, si difende dal male rifugiandosi nell’alterità. Gli “altri” ventitré sono la sua via di fuga da un dolore che lo ha segnato per sempre e proprio il passato comune rende Casey in grado di entrare in sintonia con Kevin e con gli “altri”. Questo elemento della storia ci introduce a un altro più ampio discorso.
Innanzitutto, secondo quanto il regista ci racconta, non solo la violenza genera dolore, ma la violenza stessa nasce dalla malvagità umana, che non risparmia nemmeno le mura domestiche. Il che distrugge il concetto di famiglia e toglie luce a qualsiasi evoluzione positiva nel destino dell’uomo. Queste ferite fortificano la vittima, la formano e le conferiscono un’esperienza totalmente estranea a chi ha vissuto senza dover affrontare difficoltà. In questo, Casey e Kevin sono certamente uguali. Uniti da un’affinità e da una storia emotiva differenti da quelle di Claire e Marcia, sono, a detta di Kevin, diversi in quanto superiori.
Questo concetto, oltre a essere socialmente antidemocratico, è qui ancor più pericoloso e fuorviante perché è definito sulla base dell’emozione. E, unitamente alla violenza che genera dolore, vorrebbe giustificare – trovandone una causa incontestabile – le distorsioni comportamentali, di qualunque gravità esse siano.
L’affermazione della ventiquattresima identità di Kevin, la “Bestia”, definisce e riassume il pensiero veicolato dal film. Il destino dell’uomo è racchiuso in un cerchio in cui la malvagità genera altra malvagità e in cui quest’ultima è una reazione necessaria per sopravvivere alla selezione naturale che regola il mondo.
Maria Luisa Bellucci
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