In una tranquilla cittadina di provincia, la quiete di una famiglia unita ed affiatata, formata da padre, madre, un fratello e una sorella gemelli, viene infranta da una circostanza a dir poco paradossale. Si scopre che entrambi gli anziani genitori sono affetti da una grave e rarissima malattia. Solo un trapianto midollare può salvarli. Inizialmente i medici pensano che i due figli potranno essere i donatori, ma, dopo i necessari accertamenti, si verifica che solo la figlia può essere donatrice ed una sola volta: chi salvare dei due genitori, ignari del tremendo dilemma che incombe sui loro figli? Nella dialettica delle parti in gioco, fra amore, responsabilità, paura e rimorso, non scegliere sembra l’unica strada possibile.
Quel “chi buttare dalla torre?”, ingenuamente praticato come un gioco senza particolare coinvolgimento emotivo, qui è il dilemma dilaniante che apre uno squarcio nella quiete – almeno apparente – di una famiglia dove due anziani genitori danno segno di amarsi ancora come un tempo e i due figli, già adulti, di essere loro molto legati. Quando la necessità di fare una scelta fra quale dei due genitori salvare (una necessità a cui lo spettatore deve dare credito senza interrogarsi troppo sulla verosimiglianza del caso) è come se si aprisse uno squarcio sulla verità dei legami reciproci. La drammaticità del contesto vuole raggiungere la temperatura della tragedia greca perché mette, paradossalmente, nelle mani di un figlio il potere di salvare o sopprimere un suo stesso genitore. Elena non accetta di dover essere lei a decidere e suo fratello Antonio non ha il coraggio di spingerla a prendere una decisione perché sa che se dovesse farlo lui sarebbe in balia della stessa paura immobilizzante. Il dramma evidenzia che il loro è un rapporto simbiotico che probabilmente ha anche inciso sul fatto che non abbiano trovato un compagno di vita; eppure proprio l’essere così uniti ora non li sta aiutando a maturare la scelta più responsabile, che è quella suggerita dai due medici, i quali, fedeli al dettato di Ippocrate – quanto mai freddo in questa circostanza – li spronano a salvare almeno una vita. Nei dialoghi fra i fratelli, che talvolta divengono quasi dei corpo a corpo anche fisici, crescono il pathos e la concitazione, ma sono spasmi di dolore che non portano avanti la storia. Si giunge anche fisicamente ad una nebbia finale, senza che si possa scorgere la via d’uscita che il pubblico invece desidererebbe. È come se la bomba innescata non scoppiasse mai fino alla fine lasciando un grande senso di insoddisfazione.
L’opera prima di Francesco Frangipane, oltre alla scelta di suggestive location eugubine, ha il pregio di valorizzare le interpretazioni di quattro eccelsi attori italiani di cinema e di teatro. Anna Bonaiuto è una madre dolce e al contempo autoironica, Giorgio Colangeli magistrale anche solo nei commossi piani d’ascolto. E poi, soprattutto, Vanessa Scalera ed Edoardo Pesce trovano una complicità davvero non semplice, in cui l’irruenza di lei si scontra e nello stesso tempo si amalgama con la vena malinconica del fratello. Ma se questo è il livello della recitazione, che cosa -ci possiamo chiedere- è mancato? A nostro avviso l’errore concettuale è quello di non aver messo in campo una reale e piena condivisione fra i quattro protagonisti rispetto alla scelta da prendere. Una condivisione frutto e segno di un amore famigliare che, invece, si è voluto descrivere in partenza come una somma di sentimenti individuali mai messi in comune e quindi legittimati ad esistere. È la volontà mai incrinata di non rendere partecipi i genitori della spada di Damocle sulle loro teste che impedisce ai dialoghi di divenire più aperti al vero e soprattutto portatori di una scelta che, senza scandalo, avrebbe forse potuto essere raggiunta all’unanimità.
Giovanni M. Capetta
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