Elena (una intensa Kasia Smutniak), fidanzata con Giorgio (Francesco Scianna) lavora in un bar con l’amico Fabio (Filippo Scicchitano), che condivide la casa con Silvia (Carolina Crescentini). Silvia intreccia una relazione con Antonio (Francesco Arca, ex “tronista” di Maria De Filippi), meccanico dislessico dal fisicaccio tatuato e imponente (mostrato generosamente – a proposito e a sproposito – nel film), ma è proprio la borghese Elena, dopo un paio di scontri con Antonio (che pure insulta i gay e si dimostra razzista), che non riesce a reggere al suo fascino e si innamora di lui. Tredici anni dopo, Elena e l’amico Fabio hanno avviato un pub con cui guadagnano bene, ed Elena è sposata con Antonio e ha due bambini. Antonio la tradisce senza troppi problemi ma i due si amano ancora e, quando Elena scopre un brutto tumore al seno, questo nemico imprevisto richiederà a entrambi di andare a fondo nel loro rapporto.
Ferzan Ozpetek ha abituato a dei mélo molto caricati i cui cliché ripetitivi non vengono riconosciuti dal pubblico né da una parte ampia dei critici perché – come il suo cugino stilistico Almodóvar – lavora molto bene sulle immagini, le luci, i colori, la musica (sentimentale al punto giusto). Il contributo di Ozpetek rispetto ai cent’anni di cinema precedenti è l’introduzione in ogni suo film di almeno un personaggio omosessuale.
Il primo grande cliché qui ripercorso è la descrizione di un mondo dove – a parte i rapporti di parentela stretta: genitori/figli o fratelli/sorelle – l’approccio sessuale sembra essere il primo (e a volte l’unico) modo di relazionarsi con qualcun altro: di conseguenza si cambia partner con rapidità e facilità, senza che questo crei eccessivi traumi.
Un secondo cliché dei film di Ozpetek è che l’omosessuale di turno è sempre la persona migliore, che di solito ha subito qualche trauma da piccolo (da parte di persone “omofobe”) e ha il ruolo di amico e consigliere super partes, equilibrato e sereno; può dare quindi consigli agli altri personaggi per risolvere i loro problemi affettivi, oppure è comunque l’amico sincero che non ha interessi personali e quindi ascolta, conforta, accoglie. È il ruolo in questo film (in realtà – proprio per questi motivi – abbastanza monocorde) di Filippo Scicchitano.
A parte questo, e la bellissima Lecce, nel film non c’è molto. Nelle dichiarazioni del regista, avrebbe dovuto svilupparsi anche un rapporto significativo fra Fabio e Antonio, ma nel film questo sviluppo non si vede: si capisce solo che, nel segmento di tredici anni dopo, ormai sono amici.
Non viene spiegato perché Elena s’innamori di Antonio nonostante le grandi differenze personali (basta il fisico tatuato?) e perché – nonostante litighino e lui la tradisca – lei in fondo lo ami ancora dopo tredici anni di matrimonio. Nel film, infatti, le scene matrimoniali sono tutte improntate a sottolineare la crisi fra i coniugi, che viene in qualche modo “risolta” verso la fine ma senza un vero percorso di crescita di nessuno dei due.
Altro cliché è la bambina sapiente, che ha capito tutto e avvisa il fratellino, pronunciando anche una frase che è una forzatura ideologica non piccola: “A volte preferirei avere genitori divorziati”.
Un paio di personaggi ironici (la zia vegana e in crisi d’identità interpretata da Elena Sofia Ricci e la malata di Paola Minaccioni) danno un po’ di movimento ad alcune scene, ma il film non si risolleva da un sentimentalismo ben fotografato, che però lascia tutto in superficie.
Scegliere un film 2014
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