Nel 2000, a Tolosa, il politico socialista Juan María Jáuregui viene ucciso in un ristorante con un colpo di pistola alla testa, in un’azione di un commando dell’ETA. È una tragedia per la moglie Maixabel Lasa e l’unica figlia adolescente, Maria. Nonostante la fuga, i tre terroristi vengono arrestati e condannati a 39 anni di carcere. Tempo dopo, uno dei colpevoli chiede un colloquio con la vedova del politico, avendo riconosciuto la statura umana di questa donna. I colloqui con due dei terroristi sono momenti di grande dolore, ma anche di profonda verità e consapevolezza. La determinazione e la fiducia di Maixabel nella possibilità che si apra un processo di pacificazione, la rendono sempre più protagonista, facendola diventare presidente della Oficina de Atencion a Las Victimas del Terrorismo del governo basco. La sua testimonianza personale, per non dimenticare, ma trovare una nuova via di speranza, avvia una realtà sempre più possibile.
La storia vera di Maixabel Lasa è diretta da una donna spagnola. Se Maixabel Lasa ha avuto un grande merito per il suo Paese, la regista Bollaín ha quello, altrettanto importante, di aver scritto e messo in scena un film che scava nel profondo delle motivazioni dei suoi protagonisti e aiuta anche lo spettatore straniero a comprendere il perché di una scia di sangue che, dagli anni Settanta ai Duemila, ha provocato 800 vittime. Non si tratta di una dettagliata ricostruzione degli eventi, ma di un viaggio coraggioso nel profondo dell’animo sia delle vittime – la vedova, ma anche la figlia, rimasta orfana adolescente – sia di due dei colpevoli, che, dal carcere, intendono in qualche modo dare ragione del loro gesto. Il merito principale del film è quello di accostare i punti di vista così inizialmente antitetici e permettere, attraverso i dialoghi e gli spazi dell’ascolto, che il pubblico capisca le motivazioni reciproche, anche quelle che per un ideale politico hanno giustificato una violenza non accettabile.
Premiato ai Goya 2022 per la miglior interpretazione femminile (Blanca Portillo), per il miglior attore non protagonista (Urko Olazabal) e per la miglior attrice esordiente (María Cerezuela) il film trova nell’intensità delle interpretazioni uno dei suoi principali punti di forza. Se inizialmente, senza alcuna attenuazione, viene messo in campo il dolore straziante di una moglie e una figlia, private violentemente del loro affetto più caro; nella seconda parte subentrano i dubbi, il buio, i sensi di colpa insopprimibili che i carnefici sentono il bisogno di comunicare ad una persona che hanno capito essere speciale per la sua capacità di accogliere, pur nell’enorme sofferenza, la loro necessità di cercare di dare un senso al gesto efferato che hanno compiuto. Nel gioco degli espliciti e intensissimi campi e controcampi fra Maixabel e due degli assassini, lo spettatore non ha mai il dubbio che la giustizia e la non violenza incarnate dalla donna siano vincenti, eppure anche i colpevoli, nella loro colpa e rimorso, mantengono la dignità di persone. È in questa consapevolezza reciproca che si possono instaurare le basi per una possibilità di perdono e di rinascita: sia ben chiaro non un facile colpo di spugna, non un voltar pagina a cuor leggero, quanto la costruzione, appunto, di un processo lento e difficile, rispettoso dei tempi e delle coscienze di ciascuno. Questo film, che sicuramente ha un impatto sul pubblico spagnolo del tutto particolare rispetto a chi appartiene ad altri Paesi, non può non interrogarci su quanto la cultura italiana stia davvero sforzandosi, scevra da ogni retorica e sensazionalismo, di fare chiarezza nelle coscienze dei cittadini che hanno vissuto il periodo del terrorismo e ancor più in quelle dei giovani che possono essere formate dagli strumenti tra cui il cinema resta protagonista.
Giovanni M. Capetta
Tag: 4 stelle, Biografico, Drammatico, film spagnoli