Jenny è una giovane dottoressa di talento che pratica in un ambulatorio con pazienti poverissimi, ma a cui è stato offerto un importante incarico in una clinica privata. Un giorno qualcuno suona all’ambulatorio dopo l’orario di chiusura, Jenny rifiuta di rispondere e impedisce al suo stagista di farlo. Il giorno dopo scoprirà che la giovane che aveva suonato è stata ritrovata morta poco distante, senza documenti. Da allora Jenny è perseguitata dal senso di colpa e dall’ossessione di scoprire chi sia la ragazza e cosa le sia successo.
I fratelli Dardenne, costruendo una storia paradigmatica per esplorare il tema della responsabilità personale, sempre più urgente nell’era dell’indifferenza, danno vita a un film fortemente pedagogico e moralizzante, depotenziato dal punto di vista emotivo.
Il modulo dell’intervista, dell’incontro occhi negli occhi, già presente in Due giorni, una notte, viene replicato in versione detection col duplice scopo di inchiodare l’interlocutore al concreto appello di un volto e di esplorare, attraverso il viaggio della protagonista, un’umanità ferita e coriacea.
Insieme a Jenny entriamo nelle case e nei dolori degli abitanti che hanno sfiorato la vita anonima della vittima, scoprendone la frustrazione e gli assilli che li degradano alla condizione di homo homini lupus o a un tiepido indifferentismo. Nessuno è innocente, ognuno adduce giustificazioni reali, umanamente comprensibili ma meschine di fronte alla perdita di una vita umana.
La narrativa e lo sguardo dei Dardenne è implacabile, come lo zelo di Jenny (interpretato con ardore da Adèle Haenel), quasi un’ascetica martire della responsabilità, una donna che seguiamo sin nell’intimità del suo risveglio, ma di cui non sappiamo niente, se non il vuoto di una vita apparentemente deserta di relazioni e desideri. Alla protagonista rimane solo l’ossessione redentrice che la conduce per le strade a guadagnare un nome alla vittima dell’indifferenza sua e della comunità. Eppure in questo santo zelo qualcosa pare eccessivo, angosciante, eccedente il pio intento di restituire dignità a chi è scomparso. Lo sguardo è puntato piuttosto sull’anima dello spettatore che riconosce in sé il giustificazionismo individualista che pervade il quotidiano e logora la carità che dovrebbe legarci gli uni gli altri, privandoci così dell’immagine umana.
La storia, nonostante sia archetipicamente fondata e ricca di risonanze profonde, non assume la forza e la poesia di Still Life di Uberto Pasolini, film contiguo tematicamente, o la pudica intensità di sentimenti di classici dei Dardenne come Il ragazzo con la bicicletta.
Ipotizziamo che la ragione profonda di questo depotenziamento sia un ricorso eccessivo al dispositivo stilistico dello svuotamento, perseguito a livello narrativo e registico. Se in altri film dei due fratelli il minimalismo del racconto riesce a raggiungere l’essenza profonda, restituendola intatta e toccante, ne La ragazza senza nome la sottrazione travalica i limiti e lascia i personaggi svuotati, involucri in cui fatichiamo a riconoscerci.
Ne consegue un’efficace rappresentazione della società desertificata dal corrodersi dei legami, un paesaggio ingrigito e siderale popolato da monadi che difficilmente riescono a incontrarsi. Incontri accadono, come quello tra Jenny e il suo stagista, ma scivolano via, senza rivelare l’anima dei personaggi a loro stessi e a noi spettatori.
L’eccesso di sottrazione genera un’impressione di paradigma, di favola morale, piuttosto che un reale processo di empatia e catarsi.
Probabilmente portare alle estreme conseguenze certi stilemi era preciso intento dei Dardenne; si corre però il rischio che l’indifferentismo si proietti anche sullo zelo dell’eterea Jenny e sulla tragica fine della ragazza senza nome che il film non ha saputo renderci vibranti e vive, in una parola, vicine.
Eleonora Recalcati
Tag: 3 stelle, Denuncia sociale, Drammatico