Mar dei Caraibi, Secolo XVII. Dopo il fallito e rocambolesco tentativo di rapinare una banca, il pirata in perenne disarmo Jack Sparrow riceve la visita del giovane Henry Turner, figlio dei vecchi compagni di scorribande marinare Will ed Elizabeth. Il ragazzo ha bisogno di Sparrow per recuperare il mitico tridente di Poseidone, che ha il potere di spezzare tutte le maledizioni del mare, ivi compresa quella che tiene prigioniero suo padre sul vascello fantasma Olandese Volante. Sulle tracce dell’oggetto magico, purtroppo per loro, si è messo anche il feroce spettro Salazar, ex ufficiale dell’armata spagnola, che con Jack Sparrow ha un conto in sospeso. Li aiuteranno nell’impresa la bellissima scienziata Carina Smyth e il capitan Barbossa, divenuto nel frattempo un dandy inflaccidito dalle troppe ricchezze ma che, come tutti, non vede l’ora di riprendere il mare.
È peggio dei capitoli migliori della saga ma meglio dei peggiori, questo quinto episodio dei Pirati dei Caraibi, che mantiene la rotta a vele spiegate senza la sensazione di voler attraccare in porto. Sembrano passati secoli da quando il genere piratesco era considerato ‘maledetto’ al botteghino. Le risorse della Disney e il fiuto del produttore Jerry Bruckeimer hanno avuto la meglio su tale tradizione negativa e Jack Sparrow, interpretato da Johnny Depp, è entrato bene o male nell’immaginario collettivo (nonostante sia un personaggio dall’ambiguità esasperata, o forse proprio per quello) con la stessa forza iconica di un Indiana Jones o un Harry Potter.
La formula funziona ancora, gli attori sono in gran forma, il boxoffice ha risposto positivamente. In questo, senz’altro va registrato anche un cambiamento degli spettatori che ormai – forse perché consumatori abituali di interminabili serie televisive – accordano un successo più duraturo ai medesimi personaggi, accettando di seguirli a distanza di tempo e affezionandovisi (questa è l’impressione) al di là della reale qualità di ogni film. Un tempo ciò che a Hollywood iniziava in gloria, finiva in trilogia. Oggi, invece, si arriva tranquillamente alle puntate numero sei, sette, otto, etc., senza segni di stanchezza né da parte dei realizzatori né da parte del pubblico. Ci si può divertire ancora, naturalmente, a patto che si accetti l’ennesimo giro sulla stessa giostra (non è un caso che la saga in questione nasca da un’attrazione di Disneyland).
Il film è molto spassoso nella prima ora, con gag visive di una certa inventiva e dialoghi scoppiettanti. Poi, man mano che si procede, subentra un po’ di stanchezza ma la spettacolarità non latita ed è un passo avanti – da un punto di vista narrativo, rispetto al passato – che molti tra i personaggi affrontino l’impresa, sempre irta di spaventosi pericoli, non tanto per mettere le mani su un bottino quanto per recuperare un legame familiare perduto. È questo un tirante narrativo magari risaputo, che però serve a mitigare l’umorismo grottesco e spesso nonsense incarnato da Sparrow e dalla sua ciurma, che alla lunga, senza un po’ di cuore, può risultare stucchevole.
I cliché non mancano: per esempio non c’è un personaggio che indossi una divisa o che ricopra un ruolo istituzionale (comprese due caricaturali figure di sacerdote) che non abbia una intelligenza pari a zero. E un po’ maliziosamente la sceneggiatura pone i protagonisti più giovani a dover scegliere tra razionalismo, incarnato dalla scienziata positivista (e proto-femminista) Carina, ed esoterismo, di cui è esperto il giovane Henry. Una mappa che porta in acque pericolose.
Raffaele Chiarulli
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