Marie Colvin è una giornalista, di origine americana, dell’inglese Sunday Times specializzata nel coprire i conflitti più sanguinosi (anche se spesso dimenticati) del mondo. Un mestiere che non solo mette a rischio più volte la sua vita (la incontriamo quando decide di partire per lo Sri Lanka per raccontare la rivolta dei Tamil, un’impresa che le costerà la perdita di un occhio), ma che la segna profondamente dal punto di vista psicologico. Incapace di “lasciare andare” un mestiere che è anche una vocazione, Marie affronta una profonda crisi per una sindrome post-traumatica, beve troppo e fatica a mantenere dei legami. Tuttavia, i suoi servizi da ogni parte del mondo (al fianco di Paul Conroy, fotografo che è anche un ex militare e quindi la capisce meglio di ogni altro) aprono gli occhi al mondo su tragedie volutamente occultate… fino a che il destino le presenta il conto sotto le bombe nella città siriana di Homs.
Marie Colvin non è una donna facile da amare. Ha talento, ma non ha pazienza, è incosciente, beve, è impulsiva e orgogliosa. Ma ha una dote unica e soprattutto il coraggio per portarla in giro per il modo, sotto le bombe e in mezzo ai proiettili, senza riguardo per i potenti. La sua bravura (che è un’urgenza prima di tutto personale di andare sul posto per “vedere” e raccontare, anche a costo di portare nell’anima ferite inguaribili) le conquista non solo l’interesse dei lettori, ma anche l’attenzione dei potenti (come Gheddafi) che la scelgono per comunicare al mondo il loro punto di vista. Il film ritrae (grazie all’interpretazione appassionata di Rosamund Pike), senza nascondere le debolezze, i difetti e le occasionali crudeltà, una donna che forse vorrebbe essere madre (ha avuto due aborti naturali) ma che non sembra disposta a rinunciare alla vita che si è scelta né per un compagno né per un figlio.
Le sue scelte, forse anche per una certa ripetitività nel mostrare le varie “campagne” in cui la protagonista si impegna anche dopo l’attacco in terra tamil che le fa perdere un occhio, non sono facili da accettare per un pubblico che pure subisce il fascino ruvido di questa combattente della notizia. L’istinto farebbe dire che certi rischi sono azzardati, che qualche volta bisognerebbe rinunciare, specie quando i giornalisti sono presi di mira. Eppure, lo sguardo del pubblico è un po’ anche quello del fotografo che Marie recluta in una delle sue missioni in Iraq e che da allora diventa il suo compagno di viaggio. Un ex militare (molto ben ritratto da Jamie Dornan) che non nasconde il peso di ciò che ha visto e cerca di convincere Marie a fare i conti con i suoi demoni.
Guerra dopo guerra, premio dopo premio, nonostante una nuova storia d’amore, Marie sembra però consumarsi in una missione che appare quasi votata all’autodistruzione.
Allo spettatore, consapevole fin dall’inizio del destino della giornalista, verrebbe da dire “fermati” senonché, quando la vediamo in Siria, decisa a non abbandonare chi è stato dimenticato dal resto del mondo, il film riesce finalmente a farci fare un salto e capire un po’ di più il senso di una vita complessa e a tratti contraddittoria, ma realmente mossa dal desiderio di servire la verità e in questo cercare di cambiare le cose.
È davvero “privata” la guerra di Marie, perché è una guerra anche con se stessa che, pur nell’imperfezione di un film non sempre risolto, ha il merito di ricordare il valore di chi rischia la vita non tanto per uno scoop o per la fama, ma per aprire gli occhi a noi che, sepolti dalla valanga delle notizie, rischiamo di perdere la capacità di condividere le sofferenze altrui.
Scegliere un film 2019
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