Torino. La notte di Capodanno del 1970 succede qualcosa in casa del piccolo Massimo che, dopo aver dato la buonanotte ai genitori, si addormenta sereno. Il bambino, nove anni, è svegliato di soprassalto da grida e rumori; scopre nel corridoio di casa due uomini che sorreggono suo padre, sconvolto, e incontra gli zii che premurosamente lo invitano a seguirlo a casa loro. La mattina dopo gli viene detto che la mamma sta male ed è ricoverata in ospedale. Il giorno successivo ancora, però, un sacerdote rivela a Massimo che la donna è morta, e che bisogna partecipare al suo funerale. Per il piccolo, chiaramente, è uno shock, anche perché al dolore dell’assenza della madre si aggiunge un alone di mistero che ne circonda la scomparsa. Massimo cresce, diventa un giornalista di successo, gira il mondo, diventa popolare ma non cessa mai di cercare l’abbraccio di amore che dai nove anni in poi gli è stato sottratto.
È un’insolita escursione in territori “stranieri” questo film di Marco Bellocchio, avventuratosi nel genere accidentato della “autobiografia di un altro”. Non che il regista piacentino non abbia ritrovato alcuni temi ricorrenti nel suo cinema, adattando il best-seller del giornalista Massimo Gramellini, ma il più importante di tutti, “la famiglia”, diventa un oggetto da maneggiare con più cura e delicatezza rispetto alla brutalità usata in altri titoli della sua filmografia. Fai bei sogni è una storia che parla – attraverso immagini comunque cupe e angosciose – dell’incessante ricerca di calore umano da parte di un uomo ferito, privato dei suoi affetti più cari sin dall’infanzia, che diventando adulto impara a scoprire i contorni e la profondità del proprio dolore, fino a un principio di cambiamento che passa attraverso la scoperta della verità.
Il film affronta vari argomenti, su tutti la difficoltà di comunicazione tra generazioni, l’elaborazione del lutto, il tabù della morte, lo sguardo sull’infanzia, l’insostituibilità della figura materna e perfino una domanda sull’aldilà. Per fedeltà al testo di partenza, la Chiesa – non proprio nelle simpatie del regista – è rappresentata, per una volta, senza forzature e nel suo ruolo reale di accompagnatrice dell’essere umano verso la comprensione del proprio destino: è un sacerdote, infatti, l’unico che, nei primi giorni dopo la morte della mamma, cerca di dire la verità al piccolo Massimo. Ed è ancora un sacerdote, interpretato con gigioneria da Roberto Herlitzka, a guidare i pensieri del bambino lungo un itinerario che abbraccia la fede nei suoi contenuti più semplici e veri. Lo spunto sul trascendente si perde nella seconda parte, che descrive la vita dell’uomo diventato adulto, ma c’è. Resta il solito distacco ironico ma, stavolta, Bellocchio non aggiunge anche il vetriolo.
Stilisticamente, il regista sembra frenato sia nella forza visiva sia nelle invenzioni narrative, peculiari frecce del suo arco che rendono (quasi) ogni sua opera un’esperienza artisticamente elegante, in cui immergersi. Se è un bene che la psicanalisi non prenda il sopravvento sull’intellegibilità del racconto, il continuo andirivieni temporale sfilaccia la narrazione togliendole intensità, destino ineluttabile, del resto, per molti adattamenti da romanzi che cercano di tenere nella stringata durata del film l’evolversi di una vita intera.
Un film interessante, comunque, che registra un tentativo – da parte di un autore intellettuale solitamente impegnato e “arrabbiato” – di raccontare una storia universale che possa parlare al cuore di chiunque. Un tentativo riuscito a metà, ma apprezzabile.
Raffaele Chiarulli
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