Nella Polonia del 1945, la dottoressa francese Mathilde Beaulieu (Lou de Laâge ) viene chiamata in soccorso da una monaca benedettina. Scopre che nel convento molte religiose sono state violentate da alcuni soldati russi durante un’irruzione e stanno per partorire.
Il film si ispira ad alcuni appunti di Madeleine Pauliac, un medico ufficiale delle Forze Interne Francesi, dall’aprile del 1945 Primario all’Ospedale francese di Varsavia e in forza alla Croce Rossa.
La regista Anne Fontaine, che ama raccontare storie di donne, entra a fianco della protagonista nel cuore di una comunità benedettina, ferita tragicamente dalla barbarie della guerra, e costruisce una storia corale, delicata e drammatica. Con onestà affronta tematiche profonde senza pretendere di dare risposte affrettate, scegliendo la strada del dialogo e tentando di mettere in scena, attraverso la sensibilità delle monache, i pensieri e le contraddizioni dell’animo umano di fronte a situazioni in cui è difficile trovare un significato.
A essere magistralmente intessuto è innanzitutto il rapporto tra il mondo di chi non crede, di cui la dottoressa fa parte, e quello spirituale delle monache. Incarnati in personaggi profondamente umani i due mondi vengono mostrati forti e deboli allo stesso tempo, lasciando emergere l’idea che non ci sia una totale impermeabilità fra i due, ma un attraversare insieme le viscere della condizione terrena.
In più punti infatti la presenza di Mathilde, medico esperto e pieno di energia vitale, porta conforto e nuova speranza alle religiose spaesate, quasi abbattute dalla violenza e dalla nuova condizione fisica. Eppure, più si fa coinvolgere in quella vita di comunione silenziosa, più la protagonista rimane colpita dalla fede misteriosa di queste donne; fede che, anche nella situazione più drammatica, sembra aprire alla felicità e riempire un vuoto che Mathilde sente dentro e a cui nessuno al mondo saprebbe rispondere.
L’altro grande rapporto affrontato è quello con la maternità, essenziale nella vita di una donna ma che sembra in totale contraddizione con la scelta vocazionale fatta dalle monache, e insieme a questo il problema reale di come si possa ritornare alla vita dopo aver subito una violenza. Tante domande vengono fatte sapientemente emergere all’interno del convento, tanti punti di vista, tante reazioni più o meno istintive ma tutte in parte comprensibili o degne di silenziosa compassione. Senza presunzione né ingenuità, la regista tiene aperto il dialogo fino alla fine, nella relazione molto ben riuscita tra la dottoressa e la religiosa Maria (Agata Buzek), oltrepassando lo scandalo e provando a suggerire un inizio di risposta che trova proprio nella maternità il coraggio di ripartire.
Ilaria Giudici
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