Nel 1980, alla vigilia della vittoria di Reagan su Carter alla Presidenza degli Stati Uniti, Paul, è il figlio minore di una famiglia borghese del Queens, a New York. È un ragazzo bravo a disegnare e con una sensibilità particolare, ma anche con la tentazione ribelle di fare indispettire il professore. Come lui è Johnny, compagno di colore che vive con l’anziana nonna. Fra i due si crea un legame speciale, ma poi i ragazzi eccedono e il loro sogno di evasione si infrange nella bravata di rubare un computer a scuola. Paul, per il reato commesso, subisce l’ira violenta del padre, ossessionato da un imperativo categorico accecante e viene spostato in una scuola privata. Costretto a separarsi da Johnny (a cui è stata attribuita ingiustamente la maggior responsabilità del furto) il protagonista affronta il nuovo ambiente scolastico perbenista con il suo sguardo libero e vorrebbe ribellarsi al mainstream discriminatorio e razzista dei nuovi compagni di scuola.
Armageddon time è uno di quei film sempre più rari che si rivolgono a tutta la famiglia, sia per il brio della narrazione, sia per i contenuti non banali che vengono trasmessi. “Il tempo dell’Apocalisse” è quello in cui un ragazzo, che sta facendo i primi passi nel mondo, si imbatte negli incubi – e appunto nella rivelazione, il significato autentico della parola “apocalisse” – che la sua famiglia ha cercato di sopire e, più estesamente, con la drammatica situazione sociale americana, in cui la discriminazione razziale, purtroppo, inquina ancora fortemente le coscienze di molti. A fianco del giovane protagonista troviamo un mentore che, con affettuosa saggezza, lo rinforza in una coscienza scevra da pregiudizi. È nonno Aaron, il perno della famiglia, come ammette il genero con gratitudine, alla sua morte. Un uomo che ha saputo ripartire, oltreoceano, fuggendo dalla follia antisemita e che, proprio per la sua storia, non può assecondare le ingiustizie sociali che si perpetuano nell’America apparentemente democratica e tollerante.
Il regista e sceneggiatore James Gray attinge alla memoria condivisa dalla sua famiglia e lega i fenomeni di discriminazione a cui il giovane Paul assiste con i pogrom che si scatenarono in Europa dell’Est nei confronti della popolazione di origine ebraica. Ma ancora più in profondità il cineasta torna sulla relazione con il padre e fra fratelli che aveva già affrontato in Little Odessa (1994) e I padroni della notte (2007), dove, in qualche modo, si ripercorrono i passi di Abele e di Caino, vittima di un rapporto malato con la paternità. E, del resto, se il riferimento alla persecuzione ebraica – sia detto con il massimo rispetto – è un tema che Hollywood, nel tempo, sta rischiando di inflazionare, lo scavo delle relazioni famigliari è ciò che rende il film godibile e degno di attenzione. Genitori e figli, universalmente (questa la capacità tipica della cinematografia statunitense) si immedesimano con i membri della famiglia protagonista. L’afflato complice che lega gli adolescenti e li fa credere invincibili, l’incomunicabilità dei coniugi e fra le generazioni, un rigore autoritario che non è segno di autorevolezza, gli slanci di affetto spontaneo, la fragilità che diviene feritoia di luce. Senza far fare salti sulla poltrona, nel bene e nel male, il film giunge al suo epilogo, ma non si può non registrare una buona performance corale, in cui emergono l’intensa fragilità che Anne Hathaway sa donare alla madre di Paul, vaso di coccio fra un padre patriarca inseparabile e un marito più instabile e frustrato, e la rassicurante presenza di sir Anthony Hopkins (vincitore di due premi Oscar e candidato altre quattro volte!) nei panni del nonno. Un Re Mida della recitazione contemporanea, capace di illuminare ogni sua scena.
Giovanni M. Capetta
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