Tina e Livia sono due sorelle profondamente legate nonostante i caratteri opposti: Tina, infatti, è una poliziotta timida e impacciata, legata sentimentalmente ad un collega ma divorata da un fortissimo desiderio di maternità, mentre Livia è una musicista decisa e indipendente, pienamente appagata dalla sua vita di coppia senza figli. Quando quest’ultima va dal ginecologo per sbarazzarsi definitivamente dal rischio di una maternità, lui le propone inaspettatamente di portare per nove mesi il figlio che sua sorella altrimenti non potrà mai avere…
Michela Andreozzi veste per la prima volta i panni di regista (pur senza togliersi quelli di attrice) per raccontare una commedia all’italiana moderna, che tocca molte delle sfaccettature più attuali e scottanti del tema della maternità. In primo luogo, certamente, quella dell’utero in affitto, su cui si regge tutta la storia delle due sorelle, ma è lasciato spazio anche al problema dei figli per le coppie omosessuali, dal momento che il ginecologo che dirige tutta l’operazione ha un compagno e due bambini (e sotto tanti aspetti appaiono, seguendo un cliché oggi di moda, come la famiglia più “normale” sullo schermo).
Tina e Livia, ben interpretate da Michela Andreozzi e Claudia Gerini, sono gli unici personaggi con una personalità a tutto tondo ed è grazie a loro se l’interesse per la storia si mantiene alto fino alla fine. Sono molto toccanti le scene iniziali che mostrano il desiderio di maternità di Tina, che arriva a “rapire” una bambina creduta abbandonata, nella speranza di poterla tenere con sé. Ed è interessante il percorso di crescita che entrambe compiono, unite nell’assurda complicità di dover nascondere la gravidanza di Livia e fingere quella di Tina, anche davanti alla loro famiglia d’origine.
Livia, in particolare, è un personaggio che guadagna spessore e complessità man mano, soprattutto dal momento in cui si rende conto di come la sua generosità nell’aiutare la sorella potrebbe non essere stata dettata solo dal profondo legame di affetto, ma anche dal suo perenne senso di superiorità.
Gli altri personaggi sono fondamentalmente macchiette che riescono a strappare tanti sorrisi, ma poche risate. Viene spontaneo domandarsi se, per affrontare temi simili, forse non valesse la pena un po’ di profondità psicologica in più.
Fabio (il compagno di Livia) e Gianni (quello di Tina) sono travolti dall’evento della maternità, ma mai veramente chiamati in causa: la responsabilità se la assumono totalmente le loro donne. I loro deboli tentativi di ribellione li porteranno a un cambiamento, ma non hanno lo spessore umano per vivere lo stesso viaggio emotivo delle loro compagne: in generale, l’immagine che arriva è quella di una maternità che cambia le donne, più che l’intera famiglia. Pieni di limiti e insicurezze, tutti gli uomini vengono guardati con una sorta di tenerezza accondiscendente, tranne uno: il fratello neocatecumenale di Tina e Livia. Sposato e con quattro figlie femmine, anche lui potrebbe rappresentare una forma alternativa di famiglia, ma viene invece relegato a un ruolo anacronistico e oscurantista, senza possibilità di redenzione, che non riesce nemmeno a fare ridere.
In un film che esplora minuziosamente le conseguenze della maternità, all’interno di famiglie tutt’altro che tradizionali, è curioso che non si parli mai esplicitamente del bene del bambino. Al centro dell’attenzione ci sono sempre gli adulti e la loro tardiva “maturazione”, che sicuramente questo nuovo arrivo rende più urgente che mai. Ma è giusto pensare alla gravidanza solo come a un bisogno dei genitori? E al bambino come un collante per tenere insieme famiglie scompaginate?
L’argomento non viene affrontato esplicitamente, ma in un film di questo tipo anche il fatto che sia taciuto può dire molto.
Giulia Cavazza
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