Giappone, 1934. La piccola Suzu ama disegnare, e vede il mondo con gli occhi della sua età. Dieci anni dopo, un funzionario della Marina Imperiale chiede la sua mano. La routine e il dramma della guerra lasciano poco spazio alla fantasia, ma Suzu non perderà mai la speranza per un futuro migliore.
È arrivato dicembre, e le vie del centro risuonano di carole e risate. Un viandante cammina tra la folla, portando sulle spalle una gerla con due bambini, un maschio e una femmina. Sembra l’inizio di una fiaba occidentale, e invece siamo a Nakajima-honmachi, il quartiere più vivace di Hiroshima, alla vigilia del secondo conflitto mondiale. Anche il viandante non è un uomo qualsiasi, bensì un bakemono, tipico mostro del folclore giapponese. Fortuna vuole che Suzu, la bambina prigioniera, abbia molta fantasia e si inventi un trucco per scappare assieme al suo compagno.
La sequenza con cui si apre In questo angolo di mondo, campione d’incassi in patria e vincitore di svariati premi internazionali, è emblematica di un film d’animazione che prova a parlare di “tempi difficili” in modo leggero, adottando la prospettiva di una giovane protagonista con la testa fra le nuvole e il disegno nel sangue. Sogni a occhi aperti e squarci immaginifici fanno capolino a più riprese nel corso della pellicola, individuando gli attimi significativi di una trama che si adagia su ritmi molto blandi (complice la deferenza al testo a cui si ispira, un manga a episodi della brava Kōno Fumiyo), per poi riemergere nel poetico finale.
Suzu è una ragazza di umili origini, nata e cresciuta nel mito del “Grande Giappone”. Dopo le nozze con Shūsaku (Suzu non se lo ricorda, ma i due si sono conosciuti da bambini, nella gerla del bakemono), comincia per lei una nuova vita, in una comunità dove abnegazione e spirito di sacrificio sono all’ordine del giorno. Come tante eroine kind and strong della narrativa popolare nipponica, anche Suzu è docile e volenterosa, quasi ignara del suo stesso talento. In lei rivivono tutte quelle donne che, pur non avendo lasciato traccia di sé nella storia, sono riuscite a sfamare una nazione con due pugni di riso e una manciata di erbe aromatiche raccolte sul ciglio della strada.
Persino nei momenti più bui—è questo il messaggio principale del film—non bisogna arrendersi alla violenza, ma continuare a cercare la bellezza in ciò che ci circonda, perché come dice Suzu “anche in guerra le cicale friniscono e le farfalle volano”. Le parti più riuscite della pellicola ricostruiscono piccoli “angoli di mondo”, lontani eppure in qualche modo familiari, accomunati dalla nostalgia struggente per qualcosa che non esiste più. Come l’idilliaco distretto di Nakajima descritto a inizio film, prima che la bomba atomica lo polverizzasse.
Anche le relazioni tra i personaggi sono tratteggiate con sensibilità e lirismo. I silenzi e gli imbarazzi tra Suzu e Shūsaku, così come i siparietti dei parenti (il vecchio suocero dedito al lavoro, la cognata difficile, la nipotina che conosce a memoria i nomi delle navi…), offrono uno spaccato suggestivo, e a tratti ironico, della famiglia giapponese tradizionale, dove marito e moglie si ritrovano a convivere sotto lo stesso tetto assieme a un numero variabile di congiunti.
A più di trent’anni di distanza da Una tomba per le lucciole, diretto dal compianto Takahata Isao, l’animazione giapponese torna a parlare di guerra dal punto di vista dei bambini. Ma il crudo realismo del capolavoro ghibliano cede ora il passo a toni più sentimentali, con l’effetto di vagheggiare il Giappone prebellico più che stigmatizzarne i problemi futuri. In questo angolo di mondo resta comunque un film consigliato per il suo alto valore storico e la gradevolezza della realizzazione.
Maria Chiara Oltolini
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