Leila e Armand studiano Scienze Politiche, si amano e sperano di vincere una borsa di studio come tirocinanti alle Nazioni Unite a New York. Ma poi il fratello di Leila, Mahmoud, ritorna dallo Yemen dove ha aderito al radicalismo islamico. Impedisce alla sorella di uscire di casa e di vedere altri uomini e cerca di indottrinare il fratello più piccolo Sinna. Armand, però, trova una soluzione per superare la sorveglianza: si copre con un velo integrale e si presenta come una pia studentessa, Sheherazade, cui Leila dovrebbe dare lezioni di francese. Mahmoud, però, si invaghisce della misteriosa ragazza velata…
Ambientato nella laicissima Francia dove in teoria burqa e chador sono proibiti dal 2011, il film di Sou Abadi, regista iraniana che viene dal documentario, prova a mettere in scena attraverso la commedia il problema (drammaticissimo) della radicalizzazione dei giovani musulmani delle periferie.
Figli di immigrati che in Francia hanno cercato libertà e integrazione, Leila e Mahmoud hanno scelto strade diverse per affrontare il proprio isolamento e la morte dei genitori: lei, laica e secolarizzata, coltiva il dubbio metodico, studia scienze politiche, sogna un futuro all’Onu e ha un fidanzato Armand, anche lui laicissimo, figlio di intellettuali iraniani sfuggiti alla rivoluzione Khomeinista.
Mahmoud, invece, dopo essersi fatto carico dei fratelli rinunciando agli studi, è partito per lo Yemen ed è ritornato con una barba da fondamentalista e idee molto chiare sul futuro suo e della famiglia. Del resto la stessa cosa hanno fatto i suoi amici di quartiere, immigrati come lui, ma anche un francese, Fabrice, che adesso ci tiene molto a farsi chiamare Farid.
Il ritratto di questi fondamentalisti di periferia è amabile quanto superficiale (predicano la jihad ma alla prova dei fatti sono più pasticcioni che pericolosi), come una somma di clichè è la coppia di genitori di Armand: comunista lui, femminista lei, memori dei traumi del fondamentalismo nella patria perduta, ma borghesi fino al midollo nella nuova patria, a partire dalla scelta dell’arrondissement dove abitare. Per godersi l’umorismo intermittente di questa commedia farsesca bisogna mettere da parte l’incredulità (di fronte alla prigionia di Leila in casa, che rischia di mettere in pericolo anche il suo futuro newyorkese, l’opzione polizia viene allegramente scartata) e accettare le molte assurdità come di fronte a certe opere teatrali da cui evidentemente prende spunto. Al di là della citazione di A qualcuno piace caldo, infatti, i riferimenti più evidenti sono quelli della tradizione teatrale (da Shakespeare a Marivaux), dove il travestimento è un espediente comune del corteggiamento come dell’equivoco amoroso.
Perché anche qui Mahmoud si incapriccia della misteriosa donna velata interpretata da Armand, che da parte sua coglie l’occasione per insegnare al giovane fondamentalista un’interpretazione più aperta e umanizzata del Corano e dell’islam.
E nel frattempo, mentre si aggira mascherato per le vie di Parigi, si rende conto di quanto anche gli occidentali laici e avanzati possano essere crudeli con chi appare diverso e per questo pericoloso.
La facilità con cui l’intreccio si risolve, con una messa in scena che coinvolge tutti quanti e uno svelamento finale che sana tutte le ferite, anche se perfettamente in tono con il clima da palcoscenico tenuto fino a quel momento, risulta quanto meno un po’ semplicistico rispetto alla realtà concretissima e drammatica di cui si vorrebbe parlare.
Peccato questa superficialità in cui si perdono anche momenti di autentico sentimento (il fratellino di Leila che ricostruisce minuziosamente le fotografie di famiglia) che si rimpiange non riescano a diventare l’anima autentica della storia.
Laura Cotta Ramosino
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