Nel 1926, Manuel Torres, un ragazzo messicano che insegue il sogno del cinema lavorando come tuttofare per la casa di produzione Keystone, si innamora dell’aspirante attrice Nellie LeRoy durante una festa sfrenata. Nel corso dei bagordi muore una giovane attrice e Nellie, chiamata a sostituirla, viene subito notata, raggiungendo rapidamente un incredibile successo. Manuel, intanto, inizia a lavorare per Jack Conrad,
un celebre attore in inesorabile declino a causa del passaggio da cinema muto a sonoro. Anche Nellie viene travolta dal cambiamento e, in caduta libera, si abbandona alla spirale del gioco d’azzardo e della droga. Manuel trova invece nuovi progetti e raggiunge il successo anche grazie alla sua collaborazione con Sidney, un musicista afroamericano. Ma il suo amore per Nellie lo porterà lontano da quel futuro nel ci-nema che ha sempre sognato.
Il sogno di una carriera artistica e il sacrificio che richiede sono la nota dominante delle narrazioni di Damien Chazelle, da Whiplash, passando per La La land, sino a quest’ultimo visionario omaggio al cinema. Laddove i film precedenti declinavano il conflitto tra l’individuo e la sua ambizione, in Babylon il focus è su un sogno collettivo, più grande delle singole persone che, anche quando si credono insostituibili, cadono inesorabilmente travolte dal cinema, organismo con una vita propria soggetta a cambiamenti inesorabili. L’apertura a effetto sul trasporto di un elefante è il correlativo perfetto per il tema del film: il cinema si staglia come creatura pachidermica, autonoma, indipendente dalla vita dei singoli artisti che pure contribuiscono alla sua esistenza. Il tema, presente a molteplici livelli, mantiene la coesione in un’opera strabordante per minutaggio e per citazioni, un insieme di destini e di spunti che altrimenti esploderebbero in un magma incontrollabile.
Il filo però è troppo sottile e il caos prende il sopravvento, un caos voluto, minuziosamente ricercato per comunicare l’atmosfera selvaggia di una mitologica età dell’oro e della pece, di un sogno che spesso e volentieri si rovescia in incubo. Chazelle indugia e si compiace nella rappresentazione di un vitalismo che si vorrebbe magnetico ma che rimane spesso nei confini del grottesco.
Non è un caso che il giovane regista abbia dato vita alla sua opera più ambiziosa, tornando alle radici di Hollywood, in un momento di ennesimo cambiamento per la settima arte, una crisi forse ancora più radicale di quelle passate. La celebrativa sequenza finale può suonare quasi, in alcuni tratti, come inno funebre. È sin troppo evidente l’urgenza di Chazelle, una febbre che lo porta a sacrificare la sceneggiatura, la storia, la verità dei suoi personaggi (e delle vite a cui sono ispirati) all’unico vero protagonista, il cinema appunto, l’elefante che travolge tutto. La sua ossessione, che si esprime in un citazionismo estremo, tenta di passare dal particolare all’universale, ambendo alla grandiosità dell’affresco. Nell’ansia di creare la Capella Sistina, Chazelle perde però i dettagli dei singoli ritratti che rimangono fantasmi sbiaditi e senza spessore. L’amore di Manuel, la sfrenata perdizione di Nellie, il malinconico declino di Jack finiscono nel tritacarne, frammenti a cui nemmeno il carisma di attori come Brad Pitt e Margot Robbie riesce a farci credere.
La folle corsa dell’elefante, per quanto esteticamente fascinosa, rimane lontana dalle nostre vite, come anche la tragedia dei personaggi a cui il film non concede la dignità di persone. L’unico sguardo che buca la maschera di carbone è quello di un musicista, Sidney, ed è proprio la colonna sonora, firmata dall’immancabile Justin Hurwitz, ciò che soprattutto rimane di un’opera più efficace come sinfonia che come film. Ma se il cinema perde la capacità del racconto e del mito sarà difficile che rispetti la definizione formulata nelle prime scene: “quel luogo in cui niente succede per davvero, eppure, in cui ciò che succede è più importante della vita”. In Babylon vale solo la prima parte.
Eleonora Recalcati
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