Jack Gladney è un professore universitario esperto di nazismo al College on the Hill di Blacksmith, nel Midwest. Sposato con Babette, insegnante di ginnastica posturale, sono entrambi al quarto matrimonio e vivono insieme ai loro quattro figli, di cui tre nati da precedenti unioni. La loro vita non sembra procedere in maniera molto lineare. Ogni membro della famiglia pare angosciato da qualcosa che, in qualche modo, determina la loro esistenza. Come Babette e Jack, la cui paura della morte rischia di condurre l’una in un baratro sempre più profondo costituito da vuoti di memoria e tradimenti, l’altro in ripetute visioni inquietanti in cui rischierebbe la vita. Un inaspettato evento catastrofico colpirà la loro città, obbligandoli a lasciare l’abitazione e diventando metafora vivente dei loro cataclismi familiari.
Già in Storia di un matrimonio (2019), il regista e sceneggiatore Noah Baumbach dimostrava il suo grande interesse per le dinamiche e le relazioni umane, fatte di insicurezze e crisi coniugali; questa volta però tenta di andare oltre. Con la trasposizione del famoso romanzo Rumore Bianco di Don DeLillo (1985), ci propone un’analisi critica e spaventosamente attuale dell’America degli anni ‘80, in chiave sarcastica, dolorosa, ironica e disperata allo stesso tempo. Questo mix di generi che passa dalla satira alla commedia, dall’horror al disaster movie e che rischia di confondere lo spettatore, ha un solo intento: esemplificare visivamente e verbalmente tutta la confusione di questa società, o meglio, di questa famiglia. Sia Jack che Babette sono ossessionati dalla paura della morte. Il loro vivere quotidiano ne è la prova concreta. Non riescono nemmeno a godersi una spesa al supermercato in santa pace. Tra le corsie, Jack è invaso da inquietanti visioni di un uomo senza volto che tenta di ucciderlo, mentre Babette si assenta frequentemente da casa, cercando di soffocare la sua paura con una pastiglia non in commercio, il Dylar, che le provoca solo importanti vuoti di memoria e che la induce alle bugie e al tradimento pur di riceverne qualche flacone.
Anche i dialoghi tra i personaggi – frutto di una sceneggiatura magistralmente gestita – sono metafora di confusione, scritti e pensati apposta affinché trasmettano un’evidente incomunicabilità. Se ci pensiamo bene, non è poi così impossibile ricavare il nulla da un dialogo, siamo pieni di discorsi vuoti e parole al vento usate giusto per riempire un silenzio o un imbarazzo. La stessa dinamica accade qui, genitori e figli si parlano ma si sovrastano, si rispondono ma non si ascoltano, rendendo quindi il proprio bisogno incomprensibile all’altro. Il rischio è quello di cadere in una profonda solitudine in cui le relazioni non sono possibilità di salvezza. Si è soli in una realtà in cui ci si aggrappa a qualsiasi cosa pur di non pensare troppo al proprio problema. E il risultato qual è? L’angoscia per una catastrofe incombente.
In Rumore Bianco tutto gravita, quindi, attorno alla morte intesa come distrazione. Il titolo ne è la prova: viviamo tutti con un assordante rumore bianco nelle orecchie che non ci abbandona mai, ci anestetizza e semplicemente ci distrae. Andiamo al supermercato come Jack e tra gli scaffali stracolmi ci perdiamo, vittime di quel consumismo che ci ha convinti di poter colmare il vuoto con l’abbondanza, ma non possiamo negarlo… prima o poi si arriva tutti alla cassa e lì, la linea che ci separa dalla vita o la morte è solo un rullo che scorre veloce e ci chiede il conto.
Resta solo da chiedersi se sia possibile trovare un significato a questo rumore bianco e se si possa andare al supermercato, ossia vivere la vita, contenti anche se consapevoli di una fine imminente.
Elisa Ricci
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