È il 1952 quando Sammy, a sei anni, vede al cinema Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille. Le immagini del treno che deraglia sono una folgorazione indimenticabile. Mutuando dal padre, geniale esperto informatico, la passione per la tecnologia e dalla madre pianista la sensibilità artistica e l’indole sognatrice, Sammy cresce a Phoenix in Arizona, coltivando la passione per il cinema che non vuole sia chiamata un semplice hobby. Con i compagni di scuola o i boy scout come attori e comparse, realizza i primi filmati amatoriali, ispirandosi ai western e ai film sulla seconda guerra mondiale. Si cimenta sia a girare (con cineprese sempre più moderne) sia nel montaggio e spera di diventare un regista soprattutto quando il padre ottiene un posto di prestigio a Los Angeles. Se il futuro di Sammy sembra predestinato, la sua sensibilità dietro la macchina da presa lo porta a scoprire una verità dolorosa che lo segnerà per sempre.
Il segreto dell’apprezzamento di un film sta spesso nelle attese create dalla fama dei suoi artefici o dal semplice battage pubblicitario. Chi si aspettasse da Spielberg uno dei suoi kolossal non potrà che rimanere deluso perché il grande cineasta ha scelto, come cifra stilistica per la narrazione della sua gioventù, quella del racconto intimo e famigliare, lontano non solo dagli effetti speciali, ma anche dalla grandiosità epica che lo ha visto autore in molte sue narrazioni. Quella dei Fabelmans (un cognome che per assonanza potrebbe tradursi con “coloro che raccontano favole”) è la storia di una normale famiglia di origini ebraiche prima in Arizona e poi in California. La genialità del primogenito Sammy è il frutto delle doti dei suoi genitori: suo padre gli trasmette la fiducia nella tecnologia e il senso del dovere, sua madre, senza far trapelare la frustrazione di concertista mancata, lo sprona a credere nei suoi sogni. Tutto propizia il successo del futuro regista che noi oggi conosciamo e la sua vicenda è paradigmatica dell’American dream. Contribuisce all’efficacia del racconto la recitazione dei protagonisti, in particolare della Williams, che dona al suo personaggio la verità struggente di una madre premurosa, eppure donna non pienamente realizzata. Merita anche un altro Williams, il musicista cinque volte premio Oscar, di cui quattro con lo stesso Spielberg, che accorda le sue note al tono “in minore” scelto dal regista, restando, però, altrettanto evocativo.
Sammy è un ragazzo dotato: la sua curiosità è non comune e così il suo talento applicato alla tecnica cinematografica. Sa riprendere, sa cogliere l’attimo, sa dirigere i suoi attori in erba, sa montare, quando ancora la pellicola andava fisicamente tagliata. Con il potere delle sue immagini rende spropositata la prestanza fisica del bullo della scuola che si rende conto che è stata evidenziata la sua fragilità. Mentre seguiamo Sammy nel suo avvincente apprendistato, prendiamo consapevolezza, insieme a lui, che la passione chiede in cambio la capacità di soffrire. Sammy soffre perché scopre, proprio grazie alla sua cinepresa, l’adulterio di sua madre, una ferita dolorosa per ogni figlio e che egli espone alla colpevole attraverso le stesse immagini sulla pellicola. Dunque la verità dei legami famigliari affiora anche grazie al cinema e capiamo che la grandezza del precoce artista, impersonato da Gabriel LaBelle, è forgiata da una sofferenza originaria. Quello che nel finale il grande predecessore John Ford indica all’estasiato Sammy (orizzonte alto o orizzonte basso, ma mai in mezzo) è un punto di vista sul mondo, la capacità di mettere a fuoco l’essenziale, una virtù secondo la quale lo spettatore può interpretare non solo i capolavori spielberghiani, ma tutta la storia del cinema.
Giovanni M. Capetta
Tag: 4 stelle, Biografico, Coming of Age, Drammatico