Cristina, novizia 19enne, lascia furtivamente il monastero e sale su un taxi che la sta aspettando per condurla nell’ospedale della città. Indossati abiti civili, mentre cerca invano di telefonare ad una persona, Cristina si sottopone ad una visita ginecologica, poi cerca un agente di una stazione di polizia e infine non torna al convento con lo stesso taxista ma con un altro che, approfittando della pausa per rimettersi gli abiti monastici, abusa di lei con efferata violenza. Il 40enne ispettore Marius Preda indaga sul caso e, anche con metodi non leciti, fa di tutto per dimostrare che il taxista indiziato sia il reale colpevole, fino ad un misterioso esito finale assolutamente aperto a diverse interpretazioni.
Il film presentato lo scorso anno nella sezione Orizzonti della Mostra di Venezia dal regista e sceneggiatore romeno Apetri ha vinto il premio della Giuria Interreligiosa al festival Tertio Millennio “per l’originalità nell’affrontare il tema della spiritualità in un mondo sempre più secolarizzato”. Un thriller a tutti gli effetti, ad alta densità concettuale che, in un dittico speculare, contrappone le ricerche dei due protagonisti spesso ripresi con lunghi piani sequenza che esaltano le interpretazioni anche non verbali dei due ottimi interpreti. In una prima parte Cristina (Ioana Bugarin) fa trasparire con la sola intensità dello sguardo e soprattutto con le sue scelte – sapremo che è incinta, ha rinunciato ad abortire e non vuole confermare l’identità del suo aggressore – una fede dalla radicalità estrema. Attorno a lei, in una Romania confusa e dalla fragile legalità, prevale un materialismo disfattista, incarnato da tanti comprimari e, nella seconda parte, con ostinazione cieca, dall’ispettore Marius (Emanuel Parvu). Fino alla brutale violenza che Cristina subisce, seguiamo con il fiato sospeso la silenziosa quanto accanita ricerca della novizia anche se non sappiamo esattamente di chi e per cosa. Lo stesso frusciare delle fronde degli alberi, ci invita ad un oltre non immediatamente percepibile. Nella seconda parte è il giallo a prendere il sopravvento e la tensione narrativa non si interrompe: l’ispettore desidera così tanto che sia fatta giustizia che quasi ci rende indulgenti nei confronti dei suoi metodi illeciti e violenti. Grande è l’abilità narrativa di condurci fin qui senza che si riesca a scoprire quale sia il senso del racconto.
Il talentuoso cineasta ha dichiarato che “la storia funziona bene sia se la si interpreta dal punto di vista pragmatico degli spettatori atei, sia se la si percepisce da una prospettiva religiosa, soprannaturale e immateriale […] si può interpretare integralmente in chiave spirituale – ma solo se lo si desidera”. Questo intento è, in effetti, ottenuto e si deve dare atto all’autore di centrare il suo obiettivo, anche se è difficile confermarlo senza togliere allo spettatore il gusto di “decidere” personalmente da quale parte stare. La seconda parte del film consente di decodificare minuziosamente i dettagli narrativi (per esempio i riferimenti agli orari precisi in cui si susseguono gli eventi) in una duplice ottica. O del tutto immanente, così da porsi di fronte al misterioso doppio finale come fosse una sorta di proiezione del pensiero del protagonista; oppure, assecondando una concezione religiosa dell’esistenza – cosa che del resto suggerisce il titolo anche nella versione originale – come se assistessimo ad un miracoloso riavvolgimento del tempo in cui lo spettatore vede la realtà prima come si sarebbe potuta svolgere e poi come realmente accade, grazie ad un intervento soprannaturale: una Grazia, però, paradossalmente non del tutto gratuita, ma nutrita – se leggiamo alcuni indizi – dal potere dell’amore umano capace di trasformare la realtà.
Giovanni M. Capetta
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