Max Angeli ha messo in piedi una piccola impresa che si occupa dell’organizzazione di matrimoni di alto livello: a partire dalla scelta della location, passando per il catering, fino ad arrivare all’animazione e ai fuochi d’artificio. Il film si concentra in una giornata e segue tutte le fasi della preparazione e del ricevimento di nozze di una coppia particolarmente esigente, ma a cui niente va secondo i piani prestabiliti.
Con questo film corale e ritmato, il duo Toledano-Nakache si distanzia dagli ingredienti che avevano caratterizzato il loro capolavoro, Quasi amici, per prendere ispirazione dalla commedia italiana degli anni ’60 e ’70. E se il risultato non riesce a eguagliare l’intensità della storia fra lo scorbutico paraplegico e il suo badante nero, nondimeno C’est la vie è una commedia riuscita e simpatica, grazie anche ad un cast di alto livello.
Tutto il film è caratterizzato da una forte unità di tempo e di luogo, ma si salva dalla fissità teatrale grazie a un incessante movimento di macchina fra i diversi ambienti, che riesce a malapena a seguire il turbinio dei personaggi affaccendati.
La scelta del soggetto può sembrare estremamente convenzionale, perché esistono decine di commedie che ruotano intorno ai matrimoni, ma fin dalla prima scena viene introdotto un punto di vista originale: non più quello degli sposi, ma quello del businessman, per cui il matrimonio è un lavoro delicato e i clienti sono fra i più difficili da accontentare.
Il protagonista, Max (molto ben interpretato da Jean-Pierre Bacri), è il dispotico titolare dell’impresa, assolutamente incapace di ascoltare gli altri, siano essi gli sposi o gli sgangherati membri della sua squadra di lavoro. Dai camerieri a chiamata, ai lavapiatti pakistani, fino al cantante-animatore, tutti i personaggi che normalmente stanno dietro le quinte sono abbozzati con poche simpatiche caratteristiche e con un tratto comune: la convinzione che il pezzettino di cui si occupano loro sia il più importante. Partecipa a questo trionfo di egocentrismo anche lo sposo, che organizza accuratamente il ringraziamento a se stesso per poi fingere di non aspettarsi la chiamata sul palco. A sorpresa, nel finale del suo eterno e noiosissimo discorso, cita Beaumarchais (maestro del teatro comico francese), dandoci un suggerimento per comprendere lo spirito del film: “Mi affretto a ridere di tutto, per paura di essere obbligato a piangerne“.
Nell’intenzione dei registi, infatti, questo gruppo di persone diventa metafora della nostra complessa società, perché quando si lavora si è costretti a collaborare con gente diversa (anche per livello socioculturale) e bisogna scegliere se superare gli ostacoli e arrivare alla meta insieme oppure ognuno per conto proprio.
Max ripete senza sosta che le parole d’ordine sono “coordinarsi” e “ci si adatta“, ma di fatto nessuno ascolta nessuno, fino a quando la festa non collassa al punto tale che, privi di un capo a cui obbedire, ognuno è costretto a tirare fuori le sue capacità e a prendere in mano la situazione, collaborando con chi gli sta intorno (molto bella è la scena in cui ognuno suona uno strumento improvvisato, guidati dai lavapiatti pakistani che sono ottimi flautisti).
Per terminare con le parole degli autori: “Non si scelgono le cose che capitano, ma la maniera di affrontarle. […] Il mondo va a rotoli e cosa dobbiamo fare per mantenere il senso della festa? (Le sens de la fête è il titolo originale del film). Come dice Bacri, dobbiamo adattarci”.
Scegliere un film 2018
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