Dopo aver perso per un soffio la nomination democratica nel 1984, Gary Hart si presenta nuovamente alle primarie presidenziali nel 1988, dove è a tutti gli effetti il favorito. Poi, però, il Miami Herald riceve una soffiata sulla relazione del candidato con una giovane donna, Donna Rice, e per lui, che aveva sempre sostenuto di voler tenere la sua vita privata fuori dalla campagna, evitare le domande dei giornalisti diventa impossibile.
Insolito timing per il nuovo film di Jason Reitman (Thank You for Smoking, Juno, Tra le nuvole) che in tempi di #MeToo decide di raccontare la storia del primo grande scandalo sessuale che costò la campagna al democratico Gary Hart, gran favorito alla nomination non solo per la sua carica di idealismo e carisma, ma anche per il bell’aspetto (sono i suoi stessi collaboratori a notare quanti punti gli possa portare la rigogliosa capigliatura).
L’assunto di Reitman è trasparente: mettendo fuori gioco per uno scandalo Hart (che avrebbe corso contro George Bush Sr. e, si sottointende, quasi certamente vinto) l’America non solo perse l’occasione di abbracciare il futuro, ma aprì le porte a un giornalismo che si nutre più di gossip e scandali che del discorso politico vero e proprio.
In verità, benché sia chiaro che Reitman non ha nessun interesse a condannare il comportamento privato di Hart (per cui a quanto pare la Rice era solo l’ultima di una serie di fiamme, e nonostante ciò non ha mai divorziato), il personaggio del senatore che parte lancia in resta contro le politiche di Reagan, pianifica di invitare Gorbaciov al suo insediamento e al giornalista del Washington Post suggerisce di leggere Tolstoj per capire l’Unione Sovietica, resta in abbastanza opaco.
Hugh Jackman ne incarna bene l’affabile eloquenza, ma anche, a tratti, la sottile arroganza nel non accettare domande che ritiene “non pertinenti”, nel rifiutare di rendere conto delle sue azioni, nel chiedere perdono alla moglie ma solo perché è stato scoperto…
Il punto di vista delle donne su di lui, del resto, è decisamente ambiguo. Dalla giornalista del Post che non lo ritiene affidabile e mette in discussione il rapporto di potere che lo lega alla giovane amante (questo un tipico argomento da #MeToo), alla volontaria che deve occuparsi della Rice per contenere i danni all’immagine del suo capo, passando per la stessa Rice (che nella vita è diventata attivista e produttrice televisiva), le giovani donne ci ridanno un’immagine dell’uomo Hart in definitiva deludente sul piano dei rapporti umani. L’interpretazione di Hugh Jackman, con il suo sorriso disarmante e i suoi momenti di rabbia più o meno trattenuta, tengono viva questa linea di racconto “alternativa” rendendo di fatto il film, forse anche oltre le intenzioni degli autori, più interessante.
Il film, infatti, insiste molto nel ricordare la acquiescente cecità della stampa per i peccati dei grandi politici del passato (ovviamente con Kennedy in testa), e quindi il suo obiettivo, più del politico donnaiolo, restano i giornalisti che si dedicano con più passione alle scappatelle di Hart che alle sue idee (l’assunto, a voler semplificare all’estremo, è che l’America perde per eccesso di moralismo la sua occasione di avere una sorta di Obama ante litteram).
E tuttavia non si va veramente a fondo nelle ragioni di quello che fu in effetti un cambiamento di paradigma nell’approcciarsi alla cronaca politica (anche se in realtà Clinton uscì meglio di Hart da uno scandalo peggiore perché, al di là del le riserve morali, implicava un più grave tentativo di corrompere un testimone).
C’è poi la questione, appena sfiorata dalla pellicola, della possibilità di separare completamente il politico dall’uomo; perché non è questione di moralismo chiedersi se un uomo che mente non solo alla stampa, ma prima di tutto ai suoi cari, possa essere poi totalmente credibile sul piano dell’azione politica.
Scegliere un film 2019
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