Città del Messico, 1970. Nel quartiere chiamato Colonia Roma, la routine quotidiana di una famiglia benestante con quattro figli è retta dalla giovane domestica Cleo, incaricata di badare ai bambini, pulire la casa e ovviare a ogni necessità famigliare. Il suo ruolo diventa ancora più importante quando qualcosa nell’armonia della famiglia si rompe irrimediabilmente. Ma Cleo, al di là dei suoi compiti, vive anche un’intima tragedia personale…
L’elemento autobiografico è probabilmente la chiave più adatta per entrare nel mondo di Roma e interpretare le scelte stilistiche e narrative di Cuarón. La luce, colma di grazia, che vibra in ogni inquadratura, oltre che eccelso risultato tecnico (il regista è anche direttore della fotografia del film), è sicuramente anche espressione del punto di vista di Cuarón bambino che inonda di affetto e nostalgia il ricordo di chi l’ha cresciuto e dei luoghi su cui ha posato gli occhi per la prima volta.
È uno sguardo che dell’infanzia mantiene l’innocenza ma non l’ingenuità, pronto a fotografare la sporcizia, il dramma, la spietatezza dei meccanismi di potere. Fotografare, proprio questo fa il film, il cui strumento principale è la luce prima ancora che la parola e l’espressione dei pur ottimi e intensi attori. Ci si mantiene sulla soglia del dramma di Cleo che, per quanto sia indubbio protagonista, non viene mai sviscerato, penetrato, ma fotografato come in punta di piedi, come, appunto, attraverso gli occhi di un bambino.
Questo approccio fornisce senza dubbio al film una coerenza estetica e stilistica che merita i prestigiosi premi ricevuti, in primis gli Oscar per la miglior regia, per la miglior fotografia e per il miglior film straniero. D’altra parte, però, lo sguardo fotografico congela le emozioni e lascia lo spettatore nella posizione esterna di chi guarda e non sperimenta. Non riusciamo mai a conoscere o immaginare ciò che davvero si agita dietro lo sguardo mansueto di Cleo.
A creare il momento di massima emozione, quando tutte le tensioni si sciolgono in un abbraccio, non sono parole o sorrisi che manifestano l’interiorità, ma qualcosa di massimamente esterno, come la luce, l’oceano scintillante, che sigilla in una comunità umana i destini singoli dei protagonisti.
In questa attenzione all’essere umano prima ancora che all’“individuo” e alla dignità della vita nuda come un bambino appena nato, torna qualcosa de I figli degli uomini, film dello stesso regista, che riverbera anche nelle cupe scene collettive in cui la storia del Messico incontra la storia di Cleo e della famiglia che accudisce.
Allo stesso modo, nella forza muta di Cleo segnata dalla perdita, torna qualcosa del lutto vissuto dal personaggio di Sandra Bullock in Gravity (altro importante film del regista). Le due donne sono accomunate da un filo sottile che forse ha anche a che fare con la femminilità: continuare ad affermare la vita e ciò che c’è anche oltre ogni esperienza di assenza.
In questo senso si può leggere qualcosa di ben più alto e antico di un rivendicazione “femminista” nelle parole di Sofia, la madre di famiglia e “padrona” di Cleo: «Alla fine noi donne siamo sempre sole». È come se passando dalla fantascienza al dramma intimo e autobiografico Cuarón distillasse la dignità implicita nell’essere umano, anche e soprattutto quando apparentemente passivo, capace soltanto di vivere, soffrire, accogliere (e accudire) un altro bisognoso per il semplice riconoscimento di appartenenza a una razza comune.
Qualcosa di questa semplicità, del “prendersi cura” che vive ogni madre e che dovrebbe ereditare ogni artista, traspare dalle inquadrature del film che, grazie anche all’affetto autobiografico, trasfigura ogni superficie e ogni volto, anche i più spigolosi, nello spazio e nel tempo iconico dell’amore e della nostalgia.
Scegliere un film 2019
Tag: 4 stelle, Cuarón, Drammatico, Film da Oscar, Plauso della critica