Il giovane Jonathan Larson racconta con un monologo musicale la sua corsa frenetica al successo e poi il fallimento del suo progetto “Superbia”. Nella New York caotica di fine secolo, durante gli anni culminanti dell’epidemia di AIDS e le drammatiche condizioni della comunità gay, questo giovane autore cerca di raccontare cosa significa essere un artista.
Se gli amanti dei musical non avranno di che lamentarsi, chi è meno affine al genere dovrà fare i conti con una storia piuttosto scarna. Tick, Tick… Boom! è l’adattamento per lo schermo dell’omonimo spettacolo semi-(molto)-autobiografico che il compianto Jonathan Larson aveva scritto per condividere la sua frustrazione di artista. Il film piacerà ai fan di Larson, e potrà affascinare chi volesse conoscere questo artista mancato, morto tragicamente all’età di 36 anni, prima di veder realizzato il suo grande capolavoro Rent. A detta di alcuni Larson ha rivoluzionato la storia del musical e sarebbe stato il nuovo re di Broadway di questo secolo.
Ma per chi invece non avesse affinità con la sua musica esuberante, le scale insistenti e frenesia di parole e melodie glamour a tratti “zuccherine”… guardare Tick, Tick… Boom! fino in fondo può essere un’impresa, nonostante l’ottima performance di Andrew Garfield nei panni di Larson.
Il fulcro della vicenda è ancora una volta il dramma dell’artista, il desiderio di esprimersi, di far sentire la propria voce e “svegliare il mondo” raccontando qualcosa di autentico. Alla lunga però lo spettacolo rischia di suonare come un piagnisteo. Il film si nutre dell’esasperato conflitto tra un autore e il mondo che non lo comprende, il non poter/voler entrare a compromessi, il bisogno di fare qualcosa di grande e per cui essere ricordato, a costo della propria salute, dei propri affetti… quasi ci fosse il compiacimento di raccontare che anche la maledizione dell’artista è parte dell’arte stessa.
Ma è davvero così? Sarebbe interessante discutere se l’arte sia in fondo solo questo o possa essere di più; il film non sembra contemplare una dimensione in cui un artista possa trovare serenità, compimento, letizia nel suo lavoro. Forse quel “uomo ordinario, con una vita ordinaria” di cui parlava Chesterton, non può essere un artista? O peggio: non può essere desiderabile per un artista? Guardare Tick, Tick… Boom! fa più volte l’effetto da capogiro che Dante deve aver provato incontrando Paolo e Francesca. Osserviamo un uomo trascinato dal vento della passione, e il suo talento musicale rischia di trasformarsi in un idolo.
Un poster di Whiplash diceva “la sofferenza è l’anima della grandezza”. Tick, Tick… Boom! si inscrive in un tema simile, ma l’avventura di Jonathan è assai più sentimentale. Come il protagonista dell’altro film, anche questo eroe si trova a cadere nel vortice dell’ossessione. La presunzione da grandeur lo porta a mentire, a “barare”, prima con il produttore, poi con l’amata, con l’amico. Ma la differenza è che Jonathan non sembra mai rendersene conto; non corregge il tiro, giustificato nel suo progetto e nel suo amor proprio.
Per settimane non riesce a scrivere una nota di un pezzo musicale fondamentale per lo spettacolo, ma invece che ridere della propria cocciutaggine – di quel limite che caratterizza ogni artista – il protagonista sembra quasi accusare il mondo della sua mancanza d’ispirazione. E così pure quando l’amico Michael gli offre un lavoro come pubblicitario; lo scandalo del ripiego, del “vendersi” alle grandi compagnie, lo riempie tutto facendolo ribellare, contro – si potrebbe dire – un sano realismo.
Il fatto è che Jonathan non vuole vendersi al mondo per essere libero. Sentimento lodevole. Ma cosa accade allora quando ci vendiamo all’idea di noi stessi?
Alberto Bordin
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