La vita della famiglia Solé, che da generazioni si dedica alla coltivazione di pesche, cambia all’improvviso quando il nuovo proprietario delle loro terre decide di sostituire alle piantagioni pannelli solari.
Alcarràs si distingue tra i tanti film che si contendono il sold out nei multisala: è un’elegia pastorale che, con il suo sguardo autentico e pervaso di tenerezza, è riuscita a conquistare la giuria del festival di Berlino del 2022, facendo ottenere alla regista Carla Simόn l’Orso d’oro. Alcarràs non è un non luogo, come si potrebbe pensare, ma un paesino della Catalogna che esiste davvero, con i suoi campi, le sue aziende agricole, la sua piazza, luogo di nascita della regista che, con sincerità e amore, lo rende vero protagonista di questo dramma rurale.
Simόn non sceglie attori professionisti, ma gente del luogo, per dare vita al suo racconto: persone che conoscono quella terra, il sole che bacia le piantagioni, i ruscelli e i nascondigli. Bambini, donne, uomini e anziani che diventano nucleo familiare per il tempo delle riprese. Locali che possono percepire il dramma che la famiglia Solé sta vivendo, che per decenni ha visto i peschi crescere e dare frutto e poi, all’improvviso, ne viene privata. La pellicola si squaderna con disarmante lentezza facendo assaporare allo spettatore ogni fotogramma, perché ogni immagine di questo film è un omaggio a un mondo che sta cambiando, a un mondo che sta per essere sostituito, che sta per sparire per sempre.
Il film si apre mostrando la piccola Iris alla guida di un’astronave (una vecchia auto abbandonata nei campi). Con lei ci sono i due cuginetti, inseparabili compagni di giochi. Il divertimento è al massimo, quando i loro sguardi si voltano, si sgranano. Qualcosa ha interrotto le loro fantasie, un rumore ingombrante. C’è preoccupazione, sconcerto e anche un po’ di rabbia nei loro piccoli occhi: una gru ha invaso il loro campo di gioco e sta portando via la loro astronave, per sempre. Questo è lo stesso dramma che i fratelli adolescenti, i genitori più e meno giovani, gli zii e i nonni si trovano impreparati a vivere. Già perché loro da quasi un secolo si prendono cura di quella terra, che una ricca famiglia aveva donato al nonno come segno di gratitudine per averla aiutata durante la Guerra. Di quell’accordo però, basato sulla fiducia, il rispetto, una stretta di mano, che cent’anni fa valeva tutto e ora non vale niente, non c’è traccia scritta, non una firma, non un documento che possa impedire all’erede di quella ricca famiglia di sradicare gli alberi da frutto e sostituirli con i più fruttuosi pannelli solari. Ogni componente dei Solè affronta diversamente il cambiamento ineluttabile che sta per arrivare: chi con rabbia, chi con ostinazione, chi fuggendo, chi ribellandosi, chi abbassando la testa e accettando. Un cambiamento che non è di una sola famiglia, ma che si ripercuote su tutti i coltivatori della zona che si vedono svalutare il frutto del loro faticoso lavoro ogni giorno di più, e su quei raccoglitori che aspettano invano nella piazza del paese di essere chiamati a lavorare nelle piantagioni per sostenere le loro famiglie. Ciò che rimane è la tenerezza con cui la regista mostra i suoi personaggi, che provano a resistere a un mondo che cambia.
Alla fine Alcarràs alza un dilemma: ha senso abbattere ettari di alberi da frutta, coltivati, tra l’altro, biologicamente, per installare pannelli solari? Una questione che risuona nella testa dello spettatore mentre la macchina da presa si alza sui titoli di coda per mostrare le assordanti ruspe che hanno abbattuto quelle piantagioni in cui i nostri protagonisti hanno faticato, giocato, litigato, pianto e amato.
Chiara Comotti
Tag: 4 stelle, Drammatico, Plauso della critica