Jack è un serial killer americano degli anni ’70 che, in una confessione psicologica e metafisica al contempo, ricostruisce cinque eventi peculiari della sua carriera delittuosa. Nel dialogo con lo sconosciuto Verge emergono il suo modus operandi, la ricerca di un’estetica inafferrabile negli assassinii e, infine, il bilancio sulla sua vita e su ciò che ha tentato di realizzare.
Stupisce dover rimproverare all’estremo Lars von Trier una cautela e una medietà che rischiano di fare de La casa di Jack una scolorita ripetizione di altre grandi opere del regista.
Eppure, nel film non mancano tematiche narrativamente e cinematograficamente interessanti: tra tutte la casa come anelito ad abitare l’universo senza scendere a compromessi con l’imperfezione, o la dimensione trascendente di un Dio crudele che costruisce un mondo di dolorosa bellezza e un Aldilà di spietata giustizia.
Allo stesso modo non mancano gli spunti estetici: i principi millenari di ordine e caos, incarnati nei due protagonisti, dialogano con parole e immagini, fitte di citazioni vertiginose, dall’estetica delle rovine di Albert Speer all’albero dove poetava Goethe attorno cui è nato un campo di concen- tramento.
Come spesso capita nelle opere del regista il cinema con- fina con l’arte contemporanea, e forse proprio la dimensione figurativa, più di quella dinamica e narrativa, è la più riuscita dell’opera che diventa, a tratti, un manifesto dell’arte “secondo von Trier”. Questa tentazione all’autoreferenzialità tarpa però le ali a un film che forse avrebbe meritato di volare più alto.
I consueti stilemi, veicolati dalla ruvidità della camera a mano, si uniscono a trovate ironiche di scarso effetto, come i goffi cartelli sorretti da un pur bravissimo Dillon.
Il gusto fatuo del divertissement vince sulla genuina voglia di raccontare, rischiando così di scadere in cliché che non ci si aspetterebbe da un regista di rottura come von Trier. Risulta particolarmente logora e stantia la ripetizione dei topoi psicologici di genere sulla figura del serial killer: la mancanza di empatia, il disturbo ossessivo compulsivo, tutti elementi già raccontati, e in modo più innovativo e accattivante, da raffinati prodotti televisivi come Hannibal.
La declinazione del male che Lars von Trier racconta ne La casa di Jack non possiede la purezza della disperazione di Melancholia, né l’iconica universalità di Dogville, e si incarna nella vicenda umana di un personaggio che, se difficilmente può suscitare empatia, non riesce nemmeno a provocare fascinazione. Solo negli ultimi venti minuti ci si distanzia dagli stereotipi per far esplodere le tematiche e i conflitti sottesi, in una svolta di trama che proietta chi guarda in una dimensione differente, ribaltando le carte in tavola e facendo riconoscere il tocco del grande regista.
Come se si fosse voluto tenere lo spettatore con la testa sott’acqua, solo il finale apre a un alto respiro, a una magnificenza estetica e narrativa che non riscatta però due lunghe ore di fiacco monologo e violenza gratuita. La rivelazione di Verge (un luminoso Bruno Ganz d’altri tempi) come personaggio introduce la dimensione del dialogo e intona un controcanto alle fissazioni monotematiche di Jack. Ma è un’apertura che arriva troppo tardi e rende più amara le delusione per un’opera mancata.
Scegliere un film 2019
Tag: 2 Stelle, Drammatico, Horror, Lars von Trier, Thriller