Un carcere decadente, circondato da silenziosi dirupi che ricordano Il deserto dei Tartari, sta per essere evacuato, ma per un disguido burocratico dodici detenuti sono costretti a rimanervi segregati e con loro alcune guardie capeggiate da Gaetano Gargiulo (Toni Servillo). Fra i detenuti vi è Carmine Lagioia (Silvio Orlando), noto camorrista, dal forte ascendente su tutti gli altri prigionieri. Non più visite, né permessi e solo scadenti pranzi precotti: i reclusi minacciano lo sciopero della fame e Lagioia propone a Gargiulo di cucinare lui, se solo gli darà accesso alle cucine. Contro il parere dei colleghi, Gargiulo asseconda il malavitoso e inizia un dialogo che dagli sguardi passa alle stilettate verbali fino a divenire una sottile complicità che sventa anche il probabile suicidio di Fantaccini, un giovane carcerato, sconvolto per aver ridotto in fin di vita l’anziano che ha tentato di rapinare. Un black out costringe i detenuti a mangiare riuniti, illuminati delle torce dei loro carcerieri, ma presto a tavola si siedono insieme guardie e delinquenti. Prima che tutto sembri tornare come prima, Gargiulo e Lagioia raccolgono qualche verdura nel vecchio orto e possono rivelarsi fino in fondo per quello che sono: due uomini.
Dopo L’intervallo, David come miglior regista esordiente nel 2013 e L’intrusa, Globo d’oro nel 2018, Di Costanzo giunge con Ariaferma alla sua opera più matura e si aggiudica il David per la miglior sceneggiatura originale e quello per il miglior attore protagonista a Silvio Orlando, talento ormai indiscusso. Lasciando più in controluce il riferimento alla sua terra di origine, il regista narra una storia senza ancoraggi all’attualità e che si situa in un immaginario più universale, in cui – fra le luci e le tante ombre della splendida fotografia di Luca Bigazzi – si stagliano il Bene, il Male e il desiderio di relazioni umane autentiche. Ariaferma costringe a calarsi fra corridoi angusti, celle fatiscenti e la solitudine di uomini che paiono dimenticati dal mondo e in cui il confine fra chi custodisce e chi è recluso quasi scompare. Lagioia provoca Gargiulo: “È tosto stare in galera?” Gargiulo risponde: “Tu ci stai in galera, io no” e Lagioia: “Ah, sì, non me ne ero accorto”. Chi guarda non può non domandarsi come si comporterebbe lui, o gendarme integerrimo, o boss dallo sguardo indagatore, che pare denunciare una sete di vendetta (o di giustizia?) nei confronti della vita.
Il confronto fra Gargiulo e Lagioia è fra due uomini che apparentemente appartengono a due mondi sideralmente distanti, ma che – man mano che il viaggio prosegue nei meandri del carcere e delle loro anime – si riconoscono per la loro umanità ben prima dei loro ruoli. Dal sarcasmo con cui il detenuto rinfaccia al gendarme di essere in fondo un recluso anche lui, Lagioia passa a riconoscere al suo carceriere di avergli concesso fiducia, dandogli accesso alle cucine e perfino all’uso dei coltelli. Il credito ottenuto permette al delinquente incallito, che tutti gli altri secondini tengono a distanza con repulsione e diffidenza, di mettere in campo un’inedita paternità nei confronti del disorientato Fantaccini, in balia della violenza e del rimorso. Lo sventato suicidio del giovane affiata ancora di più i due protagonisti che vedono in lui un cuore buono, quello che gli permette di lavare il corpo sofferente del vecchio carcerato come fosse quello di un Cristo deposto dalla croce. Sono Gargiulo e Lagioia a propiziare “l’ultima cena” dei dodici alla luce delle lampade e poi a sedersi tutti ad un’unica mensa che è di ringraziamento; potremmo dire inconsciamente eucaristica quando arriva anche il vino? Nell’orto, in una delle rare sequenze alla fioca luce naturale di un timido sole, Gargiulo e Lagioia, come Caino ed Abele riconciliati, offrono i frutti della terra che hanno trovato e possono finalmente dirsi di essere cresciuti nello stesso quartiere della medesima città.
Giovanni M. Capetta
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