In seguito a una segnalazione anonima, la polizia ritrova in un bosco paludoso, nella periferia di una grande città, una giovane donna scomparsa quindici anni prima quando era ancora adolescente. Mentre la polizia indaga sul ritrovamento di Samantha – questo il nome della rapita – all’esperto “criminal profiler” dottor Green è affidato il non facile compito di penetrare nella sua mente, per cercare di recuperare, oltre alla coscienza sconvolta da chissà quali violenze, l’identità di un mostro che è ancora a piede libero. La notizia del salvataggio della ragazza riaccende l’attenzione del vecchio detective privato Bruno Genko, che quindici anni prima aveva promesso ai genitori di Samantha che l’avrebbe ritrovata, fallendo nell’impresa e dovendo poi convivere nel tempo con un angoscioso senso di colpa. Genko vuole vederci chiaro in una vicenda che ha ancora troppi punti oscuri e, parallelamente alla polizia, riprende a indagare per trovare il criminale ma soprattutto se stesso.
Come già il precedente La ragazza nella nebbia (2017), anche L’uomo del labirinto costituisce un caso – abbastanza insolito nel cinema italiano – di adattamento da un romanzo in cui l’autore del libro è anche sceneggiatore e regista del film. Una coincidenza di ruoli che ribadisce quanto i confini tra letteratura e cinema (e non solo come in questo caso in ambito commerciale) si stiano sempre più assottigliando e che per i narratori cresciuti in una società completamente mediatizzata (Donato Carrisi è del 1973) tra scrivere un romanzo e dirigere un film la differenza è ormai veramente minima. Il film in questione è un giallo-thriller debitore, nelle atmosfere e nella drammaturgia, del filone che ha come capostipiti Il silenzio degli innocenti e Seven, non tanto per la violenza (benché le scene impressionanti non manchino, fortunatamente Carrisi non pigia sul pedale del grand guignol) quanto per l’ambizione di creare un racconto pieno di metafore e simboli, che intende dire qualcosa anche sulla natura dell’uomo e sulla società in cui vive.
Alcuni critici hanno applaudito al ritorno di un cinema italiano di genere ben confezionato e competitivo a livello internazionale, come ai tempi di Dario Argento e Mario Bava. Che si presterebbe, tra l’altro, a inaugurare una vera e propria saga, dato che alcuni personaggi tornano in altri romanzi dell’autore, già noti in più di venti Paesi e tradotti in inglese. La presenza di un pezzo da Novanta come Dustin Hoffman nel cast dovrebbe aiutare in questi termini la spendibilità del film sul mercato estero ma il problema – al di là degli sforzi e delle intenzioni – risiede nel film stesso: ambizioso sì, ma anche inutilmente cervellotico. La trama vede intrecciarsi due linee narrative, con due indagini parallele, quella del detective sdrucito e disilluso alla ricerca del carnefice, e quella dello psicologo dentro la mente della vittima. Quest’intreccio dovrebbe garantire la crescita della suspense verso il climax e invece, complice la scelta raffinata del regista di evitare facili spaventi, la tensione si scioglie di continuo e la soluzione dell’enigma – che Carrisi si è vantato di aver distillato in ben “cinque finali” – confonde lo spettatore più che dargli soddisfazione.
Come nel citatissimo Blade Runner e nei thriller succitati, l’universo del racconto è definito con i tratti di un mondo ormai quasi completamente putrefatto in cui pochissime persone continuano a lottare contro il Male perché nella loro integrità risiede l’ultimo baluginio luminoso contro le tenebre che non l’hanno ancora inghiottito. Anche però il percorso del protagonista, che in un momento rivelativo dice a se stesso che “se potessi scegliere di rivivere un giorno della mia vita, non sceglierei il più bello ma il più normale”, sembra perdersi un po’ nel nulla, affidato alla buona volontà dello spettatore di farsi convincere che quello a cui sta assistendo abbia un senso al di là dell’ingegnoso gioco di scatole cinesi un po’ fine a se stesso.
Scegliere un film 2020
Tag: 2 Stelle, adattamento da romanzo, Film Italiani, Giallo, Noir, Thriller