Anni ’60. A cavallo del confine tra California e Nevada c’è un motel semiabbandonato, l’El Royale, dove un giorno si presentano quattro strani personaggi: un prete smemorato, una riservatissima cantante di colore, un venditore di aspirapolveri spocchioso e irriverente, una hippie scontrosa e sboccata. Ad accoglierli il giovanissimo concierge che è anche fattorino, cameriere e addetto alle pulizie. Gli sconosciuti protagonisti della vicenda (che nel corso della storia diventano sette), che hanno tutti qualcosa da nascondere, precipitano in una spirale di violenza e colpi di scena, fino al regolamento di conti finale…
Al suo secondo lungometraggio da regista dopo l’horror Quella casa nel bosco, Drew Goddard (già una nomination all’Oscar per la sceneggiatura di Sopravvissuto – The Martian), si cimenta in un altro film di genere, questa volta un noir, decisamente pulp e con un occhio rivolto ai grandi maestri della black comedy. A cominciare dal titolo che rimanda ai “7 psicopatici”, ma anche ai “tre manifesti” di Martin McDonagh, il più fresco rappresentante del genere, per andare inevitabilmente a rubare ai soliti Tarantino e Coen: dalla cura della colonna sonora, così presente, ricca e ricercata, al linguaggio registico infarcito di citazioni che saccheggia i vari generi (dalla tensione dei thriller hitchcockiani alla scelta di inquadrature degne dei migliori duelli western, questa volta però ambientati sulla moquette di un motel), per passare alla struttura drammaturgica che procede intrecciando frammenti di storia raccontati da punti di vista diversi (alla Pulp Fiction, per intendersi). L’immancabile ironia del genere è qui più sfumata e sta soprattutto nella caratterizzazione dei personaggi, così fuori dall’ordinario, a tratti grotteschi; abilissimo il regista-sceneggiatore a servirsi di queste maschere senza rinunciare mai a verosimiglianza e a una certa profondità… Un film che forse non è un capolavoro ma senza dubbio rimarrà nella memoria degli spettatori (almeno degli amanti del genere) per un paio di scene memorabili – una su tutte, lo scavo nella stanza numero cinque sulle note di You Can’t Hurry Love, eseguita “a cappella” dalla bravissima Cynthia Erivo – e per un più che apprezzabile tentativo di osare da un punto di vista tematico.
È questo infatti un film centrato sugli opposti: California e Nevada, est e ovest, maschio e femmina, bianco e nero, verità e menzogna, colpa e innocenza, bene e male. Queste dilemmatiche contrapposizioni trasudano da ogni elemento del film, in particolare dalla location dell’El Royale, ideale anticamera dell’inferno (come ci suggeriscono le fiamme della scena madre del film), attraversata da quella linea rossa che segna il confine tra i due Stati ma che è anche metaforico spartiacque di storie e valori. A cominciare da quelli incarnati dai due protagonisti del film, il finto prete Jeff Bridges (ad aeternum il drugo Lebowski) e la cantante Darlene (la già citata Cynthia Erivo), che in realtà l’unica cosa che ha da nascondere è il suo talento.
Sono proprio loro ad accompagnare il povero Miles, il factotum dell’El Royale e anima dell’albergo – letteralmente divorato dai sensi di colpa per qualcosa di terribile avvenuto nel suo passato – nella ricerca di quel perdono divino che troverà solo alla fine. I suoi peccati gli verranno “rimessi” proprio da quel finto prete che con la propria coscienza riesce a fare i conti solo grazie ai suoi vuoti di memoria.
Scegliere un film 2019