Nella Parigi dei primi anni Novanta gli attivisti dell’associazione Act Up si mobilitano per sensibilizzare l’opinione pubblica sui danni dell’AIDS, che da un decennio sta mietendo vittime tra i balbettii del governo, i ritardi delle case farmaceutiche e l’ignoranza generale. Una volta alla settimana, di sera dopo l’orario lavorativo, gli attivisti, quasi tutti con tendenze omosessuali e quasi interamente sieropositivi, si incontrano in una capiente aula universitaria per discutere, aggiornarsi, elaborare strategie comunicative e di azione. Nascono amicizie e amori ma le riunioni sono anche l’occasione per scontrarsi su posizioni diverse. Emerge, tra tutte, la difficoltà a capirsi tra chi, del fenomeno, valuta soprattutto l’opportunità di una grande battaglia politica per il riconoscimento di diritti civili e chi – tragicamente – sente la propria vita consumarsi e il tempo sfuggire di mano.
Acclamato dalla critica di tutto il mondo, vincitore del Gran Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes e bocciato senza appello al box office (anche in Francia dove pure ha ottenuto sei premi César), 120 battiti al minuto è un vibrante film di denuncia, debitore, nello stile realista, di film come La classe di Laurent Cantet (di cui infatti Robin Campillo, qui nelle doppie vesti di scrittore e regista, era co-sceneggiatore).
Lo spettatore è introdotto nella centrale operativa di Act Up, dove vigono logiche di appartenenza e comunicazione quasi tribali: gli attivisti usano codici linguistici inventati da loro, sibilano in coro per esprimere riprovazione nei confronti di un intervento e schioccano le dita anziché applaudire. Una volta passati dalla teoria alla pratica, si cimentano in vere e proprie azioni di “guerriglia”: irrompono nelle scuole, interrompendo le lezioni e distribuendo profilattici e brochure informative; penetrano nelle sedi delle case farmaceutiche lanciando sugli impiegati palloncini pieni di finto sangue; guadagnano il palco dei convegni scientifici e insultano, schiamazzano, disturbano per farsi notare e gridare così tutta la loro angoscia.
Non tutti sono d’accordo su queste modalità e alcuni preferirebbero acquisire con le buone maniere l’autorevolezza per poter entrare nel dibattito pubblico dalla porta principale. Il tempo, però, stringe e le due diverse posizioni all’interno della comunità diventano, più il tempo passa, irriducibili.
Dove il film pecca è nelle conclusioni. Il preservativo è celebrato come una sorta di soluzione di ogni problema (la castità non viene mai presa in considerazione e le stesse aziende farmaceutiche, che nel film vengono contestate, sentitamente ringraziano).
Le vittime dell’AIDS urlano la loro disperazione ma sembrano le prime, per come sono descritte, a non avere pietà di loro stesse. La scena di una masturbazione non richiesta (a vantaggio di un sieropositivo in stadio terminale e semicosciente) nell’idea del regista dovrebbe essere romantica ma riduce di fatto l’amore a una istintiva e brutale manipolazione.
Ancora, le ultime volontà di uno dei leader del gruppo, cioè che le sue ceneri siano lanciate sui partecipanti di una convention di assicuratori (e sul loro “ipocrita” buffet fatto di aragoste e caviale), nelle intenzioni dovrebbe essere una provocazione scioccante (ma è più scioccante che la madre del defunto non abbia nulla da obiettare). Per lo stile enfatico con cui è girata, finisce col testimoniare, invece, senza volerlo, della pochezza di una certa cultura incapace di andare oltre i dati dell’immanenza. Di fronte alla malattia e alla morte, l’unica risposta possibile per i detentori di questa mentalità si esprime in una furia disumana, proprio lì dove, invece, dovrebbe manifestarsi l’amore vero, e la consolazione di una carezza di misericordia.
Scegliere un film 2018
Tag: 2 Stelle, Denuncia sociale, Drammatico, Film Francesi, Plauso della critica